Si chiama “GirlsRestart” (“Ragazze per la Ripartenza”), ed è una community nata durante il lockdown della scorsa primavera. Riunisce 500 professioniste diverse per età e settore, in tutta Italia: dalla top manager alla neoassunta, dalla coach all’imprenditrice.
Non sono contraria alla tecnologia, anzi. Però mi preoccupano alcune dinamiche che-giocoforza, in questo periodo di emergenza sanitaria- si stanno consolidando. Conferenze, sessioni di studio, sport, yoga, ginnastica, presentazioni di libri, eventi culturali, festival di cinema, semplici riunioni tra persone che lavorano nel medesimo ambiente di lavoro: tutto rigorosamente ONLINE.
Il che significa, per noi poveri mortali, stare al pc o con lo smartphone dal mattino (per chi ha figli in età scolare, e quindi in DDI), lavorare in modalità smartworking (per chi svolge lavori negli uffici pubblici o nel terziario), e poi nel tempo libero seguire tutorial in diretta per costruire lavoretti con i bambini o leggere un libro online (con livelli di attenzione e partecipazione alquanto discutibili).
Certo, siamo in piena pandemia e tutto ciò è plausibile, anzi viene accettato socialmente come una valida sostituzione dei rapporti sociali in tempi così difficili. Ma il mio timore è che, essendo l’uomo un “animale di abitudine”, non riuscirà più a tornare indietro, alla normalità, preferendo la modalità telematica anche dopo (fosse pure per comodità logistica, organizzativa e di risparmio dei costi: gli alibi potrebbero essere tanti).
Sarebbe la fine. E per quanto tutto questo adesso ci dà l’illusione di essere sempre connessi con tante persone, quando lo schermo è spento la solitudine è ancora più pesante (soprattutto per alcune persone, ad esempio gli anziani).
Un fardello che-ahimè- soprattutto le nuove generazioni- potrebbero pagare assai caro.
E’ possibile educare e insegnare sempre. Qualsiasi situazione, anche la più ordinaria o quotidiana, può offrire ai bambini gli stimoli e gli strumenti per far emergere i loro talenti.