Luisa Cascarano

Mari e oceani: dove si accumula lo strato di plastica Sotto alla superficie c'è un ampio strato dove si riscontra la massima concentrazione di microplastiche e frammenti di plastica. Non in superficie, ma appena più sotto, tra i 200 e i 600 metri di profondità: pare questo il livello in cui si concentrano i frammenti della plastica che finisce in mare. Lo riporta su Nature un gruppo di ricercatori dell’Università della California (San Diego) che ha utilizzato robot telecomandati progettati ad hoc - i cosiddetti ROV (Remote-Operated Vehicle) - per campionare l’acqua nella baia di Monterey, a sud di San Francisco. I piccoli veicoli, adoperati a circa 25 chilometri dalla costa, hanno rilevato la presenza di pezzi di plastica di dimensioni inferiori a cinque millimetri nell’intera colonna d’acqua misurata: dalle 2 particelle per metro cubo vicino alla superficie alle 12 particelle per metro cubo a circa 300 metri di profondità. A fare la parte del leone sono il polietilene tereftalato (PET), il poliammide e i policarbonati, ossia i più comuni materiali adoperati per realizzare prodotti di consumo come bottiglie e contenitori usa e getta. Plastica al posto delle alghe: gli scogli nell'Antropocene Tra i 200 e i 600 metri di profondità i ricercatori americani hanno trovato una qualità di rifiuti paragonabile a quella presente nella Great Pacific Garbage Patch, la più grande delle isole galleggianti del Pacifico (grande quanto la Francia), composta dalla spazzatura di plastica catturata e trasportata tutta lì delle correnti marine - e, senza sorpresa - hanno trovato plastiche nel corpo di granchi rossi (Gecarcoidea natalis) e appendicolarie (animali filtratori grandi appena qualche millimetro). IL PLASTICENE. Da poco sappiamo che la nostra impronta sulla Terra è ormai talmente profonda che possiamo chiamare Antropocene questa nostra era: addirittura, possiamo già identificare una sua sottosequenza (un piano temporale), il Plasticene, l'Era della Plastica. Sappiamo che molta della plastica che usiamo non è smaltita correttamente (succede anche nei Paesi più attenti e sensibili alle questioni ambientali) e che prima o poi questo materiale inizia il suo viaggio verso il mare - un viaggio lungo anni che lo degrada in pezzi sempre più piccoli, fino a diventare micro: queste microplastiche diventano cibo del cibo di cui noi stessi ci nutriamo. Così le plastiche entrano nella nostra catena alimentare: attraverso il cibo, l'acqua e l'aria. Difficile dire quando cominceranno a farsi sentire i primi benefici delle regolamentazioni più restrittive prese da molti Paesi, e quando tutti i Paesi si adegueranno a nuove regole. Difficile immaginare quando l'industria (tutti noi, con ciò che acquistiamo) potrà fare a meno della plastica e se mai succederà. Possiamo però riflettere sul problema aiutati magari da strumenti come il calcolatore della nostra personale impronta di plastica sul mondo.

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Luisa Cascarano

I ricci di mare viola e le foreste di alghe kelp In alcune zone costiere ricoperte da foreste di alghe, i ricci di mare contribuiscono al benessere generale dell'ecosistema macinando i detriti delle alghe prima che soffochino il fondale. A lungo ritenuto una minaccia per le foreste di alghe kelp, il riccio di mare viola (Strongylocentrotus purpuratus), che vive fino a 70 anni e può crescere fino a 10 centimetri di diametro, è riscattato da uno studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B. I ricercatori dell'Istituto di scienze marine dell'Università della California a Santa Barbara hanno dimostrato che il ruolo dei ricci è, al contrario, fondamentale per la salute dell'ecosistema delle foreste di alghe kelp giganti (Macrocystis pyrifera), lungo le zone costiere oceaniche temperate e polari. Il ruolo del riccio di mare è quello di fare da intermediario nella catena alimentare: intercetta la maggior parte della biomassa morta che si perde dalle foreste di alghe prima che venga portata via dalle correnti marine e la rende disponibile per i detritivori, piccoli organismi decompositori, soprattutto invertebrati (molluschi, vermi...), ma anche alcuni pesci, che abitano il fondale e si nutrono della materia organica di scarto, mantenendo pulito e salubre l'ambiente. In particolare, si legge nella ricerca, i ricci riducono gli scarti in frammenti piccoli e pronti per i decompositori. L'alga kelp, che in condizioni ideali cresce anche di 45 centimetri al giorno, non è una "prima scelta" per molti animali, che non possono nutrirsi di quel fogliame duro e indigesto. Il lavoro dei ricci è quello di creare un "frullato di alghe" a disposizione di tutti, prima che l'enorme quantità di biomassa che precipita sul fondale lo ricopra interamente, soffocandolo. 11 AGOSTO 2019 | FOCUS.IT

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Luisa Cascarano

Il granchio violinista e la CO2 Nella lotta al cambiamento climatico il granchio violinista rema contro: le sue abitudini architettoniche rilasciano enormi quantità di CO2 in atmosfera. Si pubblicano sempre più spesso studi che raccontano come la fauna mondiale venga colpita dal cambiamento climatico, ma è molto più raro leggere di animali che contribuiscono attivamente alle emissioni di C02. Certo, sappiamo tutti che le mucche emettono un centinaio di kg di metano a testa ogni anno, ma i bovini non sono da soli: stando a uno studio presentato al meeting annuale della Ecological Society of America, i granchi violinisti sono responsabili del rilascio in atmosfera di grosse quantità di anidride carbonica - e tutto perché vogliono avere la casa sulla spiaggia. VIOLINISTI DI PALUDE. I granchi violinisti, termine con cui ci si riferisce a una di circa 100 specie appartenenti al genere Uca, sono inconfondibili perché i maschi hanno una chela di dimensioni sproporzionate rispetto all'altra, che serve loro sia come segnale sessuale sia come arma negli scontri con gli altri maschi. Studiarne il comportamento non è facile: sono animali estremamente timidi e all'avvicinarsi di un potenziale pericolo si nascondono nelle loro tane. E qui sta il problema: alcune specie di granchio violinista vivono in paludi di acqua salata (lo studio ne ha analizzata una in Massachusetts), il cui suolo è in grado di accumulare immense quantità di anidride carbonica rilasciandola nel tempo solo in minima parte, fungendo di fatto da serbatoio di gas serra. Si stima che nel nord-est degli Stati Uniti queste paludi assorbono l'equivalente delle emissioni causate da 515 milioni di litri di benzina. EDILIZIA NON ECOSOSTENIBILE. Il problema è che, scavando nel suolo morbido di queste paludi, i granchi violinisti aumentano involontariamente la quantità di gas emessi in atmosfera; in particolare, gli esemplari che costruiscono la tana dove non c'è vegetazione triplicano le emissioni. E non sono da soli: secondo gli autori dello studio le abitudini "scavatorie" di altri animali, come i gamberi, potrebbero contribuire ad accelerare il processo di rilascio. Se così fosse, potremmo essere costretti a rivedere verso il basso la capacità di quell'enorme serbatoio di CO2 che sono le paludi costiere. La vita pulsante nella Fossa delle Marianne

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