Luisa Cascarano

Circolava un tempo fra i contadini la credenza che lasalvia fosse una sorta di indicatore di fortuna per le famiglie che la coltivavano nell’orto: se all’improvviso le sue foglie iniziavano a ingiallire o diventavano secche, era segno che qualcosa, prima o poi, sarebbe andato storto. La salvia, infatti, era considerata un vegetale di protezione, tanto che fin dal Medioevo i medici della Scuola salernitana la chiamavano Salvia salvatrix, ovvero la salvia che salva e che risana. In realtà, si tratta di una pianta perenne molto resistente, ed è dunque improbabile che venga danneggiata dai capricci climatici o dalle malattie: fra tutti gli aromi che crescono in giardino, ma anche in vaso, è di sicuro la più forte ed è capace di sopravvivere a lungo, rafforzando anno dopo anno i suoi fusti legnosi che crescono in altezza e n larghezza, ancor meglio se addossati a un muro o a una ringhiera. Verde, grigia o rossa: non c'è una sola salvia Della salvia esistono diverse varietà: con foglie verdi, grigiastre, variegate e anche rosse, come quelle oblunghe della Salvia purpurescens, una qualità saporita e altamente decorativa che durante la bella stagione rallegra il terrazzo con i suoi fiori riuniti in spighe di un bel colore viola-lilla e la chioma purpurea, che profuma insalate e formaggi freschi e ben si abbina ai vasi di lavande e di achillea. Narra una leggenda che Giove, il re degli dei, sarebbe stato allattato da una capra accanto a un cespuglio di salvia, il cui aroma avrebbe trasmesso al latte un potere divino. Da sempre la pianta gode fama d’essere un’erba guaritrice tuttofare, e oggi la scienza conferma la sua capacità di agire sull’ipotalamo, vera e propria centralina nervosa del sistema neuroendocrino, deputata alla regolazione di tutte le funzioni vitali. Il suo potente effetto depurativo su fegato e reni, unito alla componente estrogenica e alla capacità di contrastare l’anemia e gli sbalzi pressori, la rende preziosa anche per combattere le sudorazioni profuse, specie quelle notturne, spesso dovute a uno stato di debilitazione generale, a un’infiammazione cronica o anche alla menopausa. Fresca o essicata, la salvia è Pronta all’uso tutto l’anno Le foglie della salvia, che si diradano solo in inverno, si possono utilizzare fresche durante tutto l’anno, ma è l’estate il momento migliore per raccogliere quelle più grosse (deliziose anche fritte in pastella) e farle essiccare al sole; poi si mettono in vasetti di vetro in attesa di aggiungerle a infusi e tisane da bere tiepide a fine pasto, per aiutare la digestione. Prova la salvia in infuso e in decotto Il decotto di salvia (2 cucchiai di foglie fatti bollire 10 minuti in una tazza d’acqua e poi filtrati) si utilizza, una volta raffreddato, come collutorio per il cavo orale: è straordinario per guarire afte, gengiviti e ascessi. Impiegato per i gargarismi, è una buona terapia in caso di mal di gola. Se noti che il tuo sudore ultimamente è più acre e penetrante del solito, bevi una volta al giorno l’infuso di salvia: ti garantisce un’azione depurativa interna che purificherà tutte le secrezioni. Usala nell’acqua del pediluvio La medesima infusione di salvia si può diluire, soprattutto nei mesi più caldi, nell’acqua del pediluvio serale, aggiungendo anche 4-5 gocce di olio essenziale di salvia: questo bagno è l’ideale per eliminare i cattivi odori provocati da una traspirazione abbondante e dall’abitudine a indossare calzini o a scarpe in materiali sintetici, che favoriscono le micosi e la macerazione cutanea fra le dita. Se vuoi coltivarla, fai così Procurati un vaso di coccio profondo, del diametro di 25-30 cm, e riempilo con un terreno ricco, sciolto e ben drenato. La salvia ama il pieno sole e resiste alla siccità, mentre nella stagione fredda va riparata a ridosso di un muro e protetta dal gelo con un telo. Non esagerare con le annaffiature, perché la salvia teme i ristagni e, per contro, predilige i terreni secchi.

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Luisa Cascarano

Paura della folla Parliamo qui di una paura che a volte viene associata all'agorafobia, la paura irrazionale di trovarsi in luoghi aperti, pubblici, da cui è difficile sottrarsi e in cui si teme di stare malem, ma che ha caratteristiche sue proprie e che viene chiamata fobia sociale. Si tratta di forma d'ansia più specifica che può esistere anche "da sola", senza altre manifestazioni: la fobia sociale è la paura della folla, della confusione e della ressa. Fobia sociale: chi colpisce, come uscirne Certe persone nutrono una vera e propria avversione per tutte le situazioni in cui ci sono affollamento e un disordinato via vai. Tale avversione può esprimersi con vari gradi di intensità. C'è soffre di una forma talmente pervicace di paura della folla da evitare a ogni costo i luoghi pubblici (e di solito soffre anche di un più ampio disturbo d'ansia, talora con attacchi di panico,) chi li affronta solo quando non può farne a meno e con grande stress, e chi li frequenta comunque, anche se ciò gli provoca, dopo poco, un disagio psicofisico che rende la cosa faticosa e stressante. Questi ultimi due casi sono sicuramente i più frequenti: persone per le quali, ad esempio, fare la spesa in un centro commerciale pieno di gente, passare la sera in un locale affollato con musica ad alto volume e un vociare continuo, guidare nel traffico cittadino nell'ora di punta, diventa una prova di forza che prepara la strada alla fobia sociale. Lo stato di allerta che genera la fobia sociale I sintomi tipici della fobia sociale o paura della folla hanno a che vedere con il perenne stato di allerta, con l'eccesso di controllo tipici di chi ne soffre: alcuni lamentano forti e frequenti di mal di testa, senso di stordimento o di confusione mentale, difficoltà a fissare gli oggetti; altri entrano in tensione muscolare, con palpitazioni e senso di affanno. A volte è un malessere più psichico a imporsi: nervosismo, fretta, paura di stare male o di svenire, uno strano senso di imminenza; tutti sintomi tipici di questa forma d'ansia chiamata fobia sociale Denominatore comune è il bisogno di sottrarsi al più presto da queste situazioni, che sarebbero invece del tutto godibili - o quantomeno neutre - se soltanto ci fosse meno "confusione". Alla radice della fobia sociale o paura della folla possono esserci cause diverse: un bisogno non riconosciuto - o non possibile - di pace, di introspezione o di contatto con la natura; una chiusura, una scarsa integrazione con il sociale, vissuto come estraneo e intrusivo; una forte esigenza di controllo, di gestire poche cose alla volta, di situazioni poco imprevedibili; una spiccata idiosincrasia per gli attuali ritmi e rituali collettivi; una notevole tendenza a lasciarsi influenzare dal mondo esterno. Un mondo che però, a meno di scelte "eremitiche", bisogna avere la libertà di frequentare nelle sue molteplici forme quotidiane senza sentirsi così in difficoltà. I luoghi che generano maggiore fobia sociale Centri commerciali, supermercati. Traffico cittadino, in vie di grande richiamo. Uffici pubblici e relative code Cinema, stadio, concerti. Mezzi pubblici, treni. Fobia sociale: come si cura No alle prove di forza Non fare prove di forza, costringendoti a situazioni che proprio non sopporti. Ma non rafforzare la tua "gabbia" aumentando gli evitamenti e i luoghi tabù. È utile "desensibilizzarsi" andando negli stessi posti affollati e osservandoli in modo diverso, da "turista", senza avere altre cose da fare e senza fretta. Ti diventeranno più familiari e meno nemici. Cerca un "senso" interiore Spesso il fastidio per la confusione esterna rievoca una confusione interiore. Valuta se non sia giunto il momento di mettere mano ad alcuni problemi personali in sospeso. Ritrovare un ordine interiore può farti muovere nella realtà con più padronanza. Comincia dal corpo Un buon contatto con il proprio corpo è di grande aiuto: con l'aiuto di un personal trainer individua esercizi fisici che aumentino il senso del tuo baricentro corporeo, la padronanza dei tuoi movimenti, la familiarità con un momentaneo disequilibrio.

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Luisa Cascarano

Kefir: una nuova risorsa? il kefir ha la sua origine nelle montagne del Caucaso, tibetane e mongole dove era già presente tradizionalmente e veniva passato di generazione in generazione tra le tribù, essendo considerata una fonte di ricchezza familiare. Si accenna al suo utilizzo per la prima volta nel Milione di Marco Polo, che parla di una bevanda alcolica ricavata dal latte. Successivamente l'immunologo Il'ja Il'ič Mečnikov, premio Nobel per la medicina nel 1908, effettuando alcuni studi sui processi d'invecchiamento individuò nel kefir uno dei principali motivi della longevità delle popolazioni del Caucaso. Da quel momento se ne diffuse l'utilizzo in Russia, mentre molti anni più tardi prese piede nel resto del mondo, tra cui anche in Italia, anche se in epoca molto recente. Il nome kefir sembra derivare dallo slavo keif, che significa “benessere” o “vivere bene”, grazie al senso generale di salute e benessere generato in coloro che lo consumano. Il kefir è una bevanda di latte fermentato prodotto da granuli, fondamentali per la produzione della bevanda. I granuli comprendono una miscela specifica e complessa di batteri e lieviti che vivono in una relazione simbiotica su una matrice composta da polisaccaridi e proteine. La relazione simbiotica ha lo scopo di produrre sostanze biologicamente attive che sono essenziali per la crescita dei granuli. Questi, hanno forma simile al cavolfiore. Sono elastici, irregolari, gelatinosi e di colore bianco, con dimensione variabile. Si trova nei supermercati pronto al consumo, ma è anche possibile prepararlo in casa aggiungendo latte a temperatura ambiente a granuli di kefir, facilmente reperibili. I batteri presenti nei granuli sono responsabili di una fermentazione lattica, per cui il gusto del kefir è molto simile a quello dello yogurt, con un gusto un po' più effervescente, grazie alla presenza di anidride carbonica e una piccola quantità di alcol etilico. Esistono tuttavia in commercio anche forme di kefir del tutto prive della parte alcolica. I granuli possono essere aggiunti al substrato di fermentazione come coltura iniziale. La fermentazione avviene tipicamente a temperature che vanno da 8 a 25 gradi, in un contenitore parzialmente chiuso, per un tempo variabile da 10 a 40 ore. Dopo la fermentazione, i chicchi vengono separati dal latte fermentato per filtrazione, usando un setaccio. Il kefir può poi essere consumato immediatamente dopo la separazione dai granuli oppure essere riposto in frigo per un consumo successivo. Può essere prodotto da latte intero, scremato, parzialmente scremato di vacca, capra, pecora, cammello o bufala. Quello vaccino è quello più comune. Lo yogurt come antitumorale: per alcuni sì per altri no La composizione nutrizionale del kefir varia in base alla composizione del latte, alla composizione microbiologica dei granuli utilizzati, al tempo e alla temperatura della fermentazione, ma anche alle condizioni di conservazione. Secondo il Codex Alimentarius, un tipico kefir dovrebbe contenere almeno tra il 2 e il 7% di proteine, tra lo 0 e il 6% di acido lattico e meno del 10% di grassi. Il numero totale di microorganismi dovrebbe essere almeno 107 CFU/ml e il lievito non meno di 104 CFU/ml (unità formanti colonia). Il kefir, infatti, è costituito prevalentemente da una parte acquosa, seguita poi da zuccheri, grassi e proteine. Contiene una ricca quantità di vitamine pronte per il consumo, tra cui vitamine del gruppo B (B1, B2, B5), ma anche vitamine C, A e K. In alcuni casi sembra che la concentrazione di vitamina B12, folati, biotina e riboflavina incrementi durante il processo fermentativo. Tra i minerali sono presenti magnesio, calcio e potassio, ma anche zinco, rame, manganese e ferro in quantità minori. La varietà delle specie presenti nel kefir è elevata. La composizione dei granuli di kefir comprende dal 65 all'80% di Lattobacilli, mentre la restante percentuale è formata dai lieviti, tra i quali troviamo Saccharomyces cerevisiae, Saccharomyces unisporus e Candida kefyr.

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