Luisa Cascarano

Perché le donne sopportano meglio il dolore? Secondo un recente studio le donne sopportano di più il dolore rispetto agli uomini perché ricordano di meno le esperienze dolorose. Alzi la mano la donna che non ha mai detto: «Mio marito, quando è malato, è insopportabile. Ha solo due righe di febbre e un po' di mal di testa ma sembra che sia sul letto di morte». Un luogo comune? Un pregiudizio di genere? Non troppo, e ora la scienza ci spiega perché. MEMORIA. Secondo una ricerca pubblicata su Current Biology, dipenderebbe dalla memoria. Partendo da sperimentazioni condotte su topi di laboratorio (e poi estese agli esseri umani), si è visto che gli esemplari maschi, in caso di ritorno nel luogo in cui avevano vissuto un’esperienza traumatica, tendono a mantenere un ricordo più vivido del dolore. ricercatori hanno misurato il dolore percepito da un gruppo di individui causato dal riscaldamento dell’avambraccio (per i topi, della zampa). A distanza di qualche tempo, il test è stato ripetuto facendo ritornare i soggetti nello stesso ambiente dell'esperimento. TROPPO CALDO. La seconda volta gli uomini (e i topi maschi) hanno percepito un fastidio molto più intenso rispetto alle donne... e i topi maschi si sono allontanati in tempi più rapidi dalla fonte del calore.

Luisa Cascarano

Come il cambiamento climatico altera le precipitazioni nel nostro emisfero Per ogni grado in più nella temperatura media globale dell'atmosfera, le precipitazioni aumentano del 2 per cento, ma non in modo uniforme. I ricercatori del National Center for Atmospheric Research (NCAR, Usa), utilizzando un approccio innovativo, basato sui dati meteo delle precipitazioni dell'ultimo secolo (1921-2015) elaborati da evoluti modelli di circolazione atmosferica su larga scala e analizzati con tecniche statistiche e simulazioni climatiche, hanno dimostrato che vi sono state importanti variazioni nella quantità delle precipitazioni che hanno interessato l'intero emisfero nord del Pianeta (Eurasia e Nord America): in alcune regioni sono notevolmente diminuite, in altre sono radicalmente aumentate. Lo studio», afferma Clara Deser, co-autrice della ricerca, «dimostra in modo inequivocabile che il cambiamento climatico avvenuto negli ultimi decenni, indotto dall'uomo, ha influenzato le precipitazioni degli ultimi 100 anni.» Dal 1920 a oggi sono aumentate sull'Eurasia settentrionale e sul Nord America, mentre una significativa diminuzione si è avuta sulle regioni centrali degli Stati Uniti e nel sud dell'Eurasia. Gli autori dello studio (pubblicato su Geophysical Research Letters) hanno rilevato che, a livello globale, si ha un aumento delle precipitazioni dell'1-2 per cento per ogni grado in più di temperatura dell'atmosfera, perché c'è una maggiore evaporazione degli oceani. Ma il complesso sistema della circolazione atmosferica fa sì che le precipitazioni non siano uniformi ovunque, al punto che in alcune regioni del mondo la quantità potrebbe diminuire, e non di poco. Come gli stessi ricercatori ammettono, il lavoro è stato molto complesso, perché è difficile separare quelle che sono le variabilità climatiche naturali da quelle indotte dall'uomo. Per iniziare, lo studio ha preso in considerazione i periodi invernali, più semplici da studiare dal punto di vista della circolazione atmosferica. Il team ha dapprima determinato in modo statistico la quantità di pioggia caduta durante i vari anni, poi ha calcolato le possibili variazioni naturali: è a pèartire da questi dati che è emerso che l'aumento o la diminuzione delle precipitazioni che si sono verificate non potevano che essere indotte dai cambiamenti climatici causati dall'uomo. Il tutto è stato verificato passo a passo confrontando i dati reali con quello che mostravano i modelli, finché i ricercatori sono riusciti ad affinare questi ultimi fino a farli concordare nel miglior modo possibile con la realtà. Il metodo si è dimostrato molto affidabile e sarà adesso utilizzato per avere previsioni accurate sulla piovosità dei prossimi decenni, in funzione di vari scenari di aumento delle temperature

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Luisa Cascarano

Il ruolo dell’attività fisica nella prevenzione e nel trattamento della depressione Una recente review ha evidenziato come praticare regolare attività fisica possa diminuire il rischio di sviluppare disturbo depressivo maggiore Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) è un disturbo mentale fortemente diffuso nella maggior parte delle culture, il quale raggiunge una prevalenza che si attesta tra il 6% e il 18% nel mondo. Tale patologia è inoltre la prima causa di disabilità a livello mondiale e comporta costi notevoli sia dal punto di vista personale che sociale. sintomi principali del Disturbo Depressivo Maggiore includono umore deflesso, diminuzione dell’interesse o del piacere per la maggior parte delle attività quotidiane, diminuzione della motivazione, incremento o decremento di appetito e peso, insonnia o ipersonnia, agitazione o ritardo psicomotorio, affaticamento, sintomi cognitivi quali deficit di memoria, pensieri suicidari con o senza pianificazione e tentativi effettivi di suicidio. Oltre a influire significativamente sul benessere e sulla salute mentale, è stato più volte evidenziato come le persone affette da Disturbo Depressivo Maggiore abbiano uno stato di salute fisica più cagionevole, essendo frequentemente portatori di malattie cardiovascolari e diabete, e riportando una mortalità precoce di circa dieci anni rispetto al resto della popolazione. Il trattamento di elezione per le persone con diagnosi di DDM consiste nella prescrizione congiunta di antidepressivi e psicoterapia, ma entrambe queste componenti non risultano efficaci per tutti i pazienti affetti da Disturbo Depressivo Maggiore. Data l’entità dell’influenza negativa di questa patologia sia sul piano personale che su quello sociale, risulta necessario identificare ulteriori fattori che possano portare a un miglioramento delle terapie attuali per questa condizione clinica. Depressione: gli effetti dell’esercizio fisico In una review recentemente pubblicata su Current Sports Medicine Reports, Schuch e Stubbs (2019) hanno evidenziato come l’adozione di una pratica regolare di esercizio fisico possa contribuire alla diminuzione del rischio di sviluppare un quadro depressivo, nonché risultare un’utile strategia per il trattamento effettivo della depressione, riducendo l’intensità dei sintomi depressivi e migliorando la qualità di vita e la salute fisica dell’individuo affetto da depressione. In primo luogo, gli autori hanno analizzato i dati provenienti da 49 studi prospettici, per un totale di 266.939 partecipanti, relativi all’effetto dell’attività fisica sulla prevenzione dello sviluppo di un quadro depressivo. Nella metanalisi è stato messo in luce che, presi in considerazione fattori quali l’età, il sesso biologico e lo stato di fumatore, la pratica regolare di esercizio fisico aiutava a ridurre il rischio di sviluppare depressione del 17%. Tale effetto è stato confermato per tutte le fasce d’età dei partecipanti (bambini e adolescenti, adulti e anziani) e in tutti i continenti in cui gli studi sono stati condotti (Asia, Europa, America e Oceania). Schuch e Stubbs hanno inoltre analizzato studi che andavano a valutare l’efficacia dell’attività fisica come trattamento per un DDM già diagnosticato. In particolare, gli autori riportano una metanalisi da loro condotta nel 2016, la quale includeva 25 studi dal campione complessivo di 1487 persone affette da depressione, di cui 757 erano state assegnate casualmente ad una condizione di esercizio fisico mentre le altre 730 a una condizione di controllo. Al termine della metanalisi era stato evidenziato un effetto antidepressivo ampio e significativo favorito dall’esercizio fisico. I meccanismi neurobiologici sottostanti gli effetti antidepressivi dell’esercizio fisico sono per la maggior parte sconosciuti, ma studi precedenti hanno ipotizzato diversi fattori compartecipanti quali infiammazione, stress ossidativo e rigenerazione neurale.

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