Luisa Cascarano

I geni non sono il tuo destino, ma conoscerli aiuta a costruirlo Le ricerche degli ultimi anni hanno consentito di capire più a fondo il ruolo e il valore dello studio genetico di ogni persona. All'inizio del millennio si pensava che lo studio del DNA avrebbe portato alla comprensione di qualsiasi malattia o disturbo, ma così non è stato. Si è capito infatti che la predisposizione genetica si intreccia in modo potente con lo stile di vita e i comportamenti alimentari e si è potuto verificare che il fatto di mettere in atto dei cambiamenti "epigenetici" validi può contrastare efficacemente una particolare variante genica presente nei propri cromosomi. Le varianti geniche, una volta conosciute e analizzate, possono essere di grande aiuto per comprendere come agire per prevenire lo sviluppo di una malattia o un disturbo particolare. Per le malattie metaboliche come diabete, obesità, sovrappeso e steatosi epatica ad esempio (tutte malattie correlate con la gestione degli zuccheri) questo aspetto è ancora più rilevante perché la conoscenza della condizione genetica che può condizionare l'utilizzo corretto degli zuccheri consente di orientare meglio le strategie per il controllo di valori eventualmente alterati nel rapporto con questi ultimi. Quando si analizza la predisposizione genetica per alcune condizioni come quelle segnalate, non si va certo a leggere un'evoluzione specifica verso la malattia, ma si è semplicemente aiutati a capire se esiste un aspetto strutturale, genetico o familiare, che faciliti la comparsa di un problema di salute quando non si prendano i dovuti provvedimenti. Altro che gene del cancro: è l'infiammazione il vero nemico Alcune particolari varianti geniche correlate anche alla gestione degli zuccheri non sono mai indicatori dello sviluppo di una malattia, ma segnalano, per alcuni soggetti, la necessità di una maggiore attenzione dietetica o nutrizionale perché caratterizzano una maggiore sensibilità personale per quel tipo di problema. Chi avesse una maggiore predisposizione al diabete o all'obesità, per la presenza di una particolare variante genica, ha la possibilità di definire e mettere in atto stili di vita e di alimentazione più equilibrati, per controllare in anticipo i possibili danni che si possono manifestare. Il quadro genetico che si analizza ha quindi il semplice valore di un “avviso di cautela”, che può essere gestito in modo adeguato, a volte anche solo con semplici modifiche di alcune abitudini alimentari individualmente scorrette. C'è anche un secondo aspetto della conoscenza del proprio quadro genetico, che per le malattie metaboliche assume una importanza strategica. Un lavoro pubblicato sul BMJ nel 2018 specifica che chi ha ad esempio una predisposizione genetica al diabete è anche tra le persone che più rapidamente ottengono vantaggi da una dieta corretta. La predisposizione genetica, quindi, può rappresentare sia un problema sia un vantaggio, in relazione a come si gestiscono le abitudini alimentari (Wang T et al, BMJ. 2018 Jan 10;360:j5644. doi: 10.1136/bmj.j5644). Anche nello studio della infiammazione da cibo, per la quale si misurano i livelli di BAFF e di PAF insieme al profilo alimentare personale, la conoscenza della presenza o dell'assenza di una variante allelica del gene che codifica per il BAFF (B-cell Activating Factor) è effettivamente associata all'aumento della produzione di BAFF e a una maggiore produzione di Immunoglobuline, come è stato dimostrato da Steri nel 2017 sul New England Journal of Medicine (Steri et al, N. Engl. J. Med. 376, 1615-1626, 2017). Per una persona con alti livelli di BAFF, sapere di avere la variante genica che favorisce la sua produzione comporterà la scelta di una migliore adesione ai principi dietetici indicati, e per una persona con bassi livelli di BAFF la valorizzazione degli aspetti virtuosi che già riescono a tenere basso il livello di questa citochina. La presenza della variante, per la popolazione italiana, risulta del 5,7%, per la popolazione spagnola è del 4,9%, mentre per la popolazione Nord europea 1,8%

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Luisa Cascarano

Meditazione e consapevolezza per il benessere: come, quando e perché Meditare significa staccarsi dalle quotidiane preoccupazioni, per aiutare le reali priorità a trovare il giusto spazio. È esperienza comune il fatto di trovarsi a vivere con ansia. Si tratta di una sensazione legata strettamente a pensieri riferiti al passato e/o al futuro e da cui è facile staccarsi nel momento in cui ci si trovi strettamente legati all'attimo presente. La meditazione permette questo: di calarsi consapevolmente nell'attimo presente, riducendo i livelli di ansia e di stress percepito e mettendo nelle condizioni migliori per far fronte alla propria realtà vera (lasciando da parte quella proiettata, nel futuro o nel passato che sia). Esistono diversi modi per meditare e ciò che ne rende uno migliore di un altro è il fatto di essere il più facilmente praticabile da ciascuno. La percezione del proprio essere fisico è fondamentale. Ecco che alcune pratiche focalizzate sulla mindfulness (sul sentimento di “assoluta presenza a se stessi”, fondamentale per la meditazione) usano il movimento per aiutare a entrare in contatto con il proprio corpo staccandosi dal resto del mondo. Osho, ad esempio, suggerisce meditazioni che vedono il saltello associato alla respirazione, per aiutare la presa di consapevolezza. Nulla vieta, in questo senso di usare come momento di “mindfulness” l'ora (o il tempo che sia) di nuoto o di bicicletta o di corsa, quotidiano. Il concetto è quello di essere assolutamente calati nel “qui e ora”, perfettamente coscienti della propria fisicità e dei propri “non pensieri”. LEGGI ANCHE Per vivere più sereni bastano quindici minuti L'idea fondamentale alla base della meditazione è infatti proprio quella di defocalizzare il proprio pensiero, facendo concentrare la propria mente su elementi a cui non è solito prestare attenzione, come la posizione del proprio corpo o il proprio respiro. Così, la mente viene “svuotata” dei pensieri più o meno coscienti che la occupavano (quelli che in genere producono ansia e angoscia), lasciando spazio al benessere. Metodi di meditazione più “tranquilli” usano semplicemente la respirazione eventualmente aiutata da un mantra (una frase positiva da ripetere mentalmente come ad esempio “io sono ora” o “io amo me”) per staccarsi dai propri pensieri disfunzionali per trovare la propria mindfullness. Ci si mette seduti (o anche sdraiati) comodi, si chiudono gli occhi e si ci focalizza sul movimento del proprio torace e del proprio addome che si espandono e contraggono e sul percorso che fa l'aria mentre entra ed esce dal nostro apparato respiratorio. La respirazione (ed eventualmente il mantra che si sia scelto) devono diventare l'unica cosa che occupi la mente. È naturale che, almeno in fase iniziale i pensieri si affollino anche durante la meditazione. La soluzione in questo senso è facile: li si ascolta e li si lascia passare tornando a focalizzarsi sul proprio respiro. Dal punto di vista sperimentale, il controllo della propria attenzione, la funzionalità esecutiva, e la consapevolezza quotidiana vengono migliorati dal lavoro di meditazione, così come la compassione funzionale e la gestione dello stress. Il lavoro di meditazione e di respirazione consapevole è utilissimo per migliorare il senso di benessere complessivo, tanto da essere anche un utile come ausilio terapeutico in chi, ad esempio, soffre di depressione o attacchi di panico. Quindici minuti quotidiani di respirazione concentrata o di meditazione sono sufficienti a dare ottimi risultati in termini di benessere ma anche tempi minori e meglio inseribili nella quotidianità di ciascuno sono altrettanto funzionali: cinque minuti inseriti una volta al giorno, nel momento che più è congeniale, sono un'ottima idea. Attenzione: quando si inizia a meditare è naturale trovarsi a pensare “cosa sto facendo?” o “ma servirà a qualcosa?” e “mi sento solo molto stupido/a”. Tranquilli: sono pensieri normalissimi: datevi fede e datela a ciò che state facendo. I risultati saranno arrivati prima che possiate rendervene conto.

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Luisa Cascarano

Anche il disturbo psichico può dipendere dall'infiammazione alimentare Mente e corpo sono molto più connessi di quanto si pensi. Per anni si è pensato solo all'influenza (spesso negata) della mente sull'organismo mentre oggi la ricerca conferma che esiste anche l'effetto opposto, cioè che condizioni prettamente fisiche, come l'infiammazione, possano indurre e mantenere disturbi psichici come l'ansia, la depressione, la sindrome ossessivo compulsiva e tanti altri. Per chi, come noi, ha sempre creduto a una relazione a "doppia via" tra mente e corpo non è certo una novità, ma per molti, pensare che un disturbo ossessivo-compulsivo come il fatto di volere mettere tutte le penne e le matite perfettamente allineate sulla scrivania, le pantofole perfettamente simmetriche ai piedi del letto (altrimenti non si può dormire) o per chi ossessivamente si sente obbligato a svuotare il frigorifero e a mangiare in quantità (binge eating) sia dipendente da un elemento fisico come l'innalzamento di una citochina infiammatoria, potrebbe essere una sorpresa. “ Le citochine infiammatorie, comunque prodotte, sono dei segnali di allarme per l'organismo e inducono risposte difensive anche sulla psiche. Una ricerca pubblicata nel giugno 2017 su JAMA Psichiatry, una delle riviste più autorevoli in questo campo, ha confermato attraverso uno studio delle influenze sui circuiti neuronali più profondi, che l'infiammazione, e la presenza di particolari citochine, può modulare il comportamento e quindi indurre e mantenere disturbi e comportamenti fino ad ora considerati solo di origine psichica (Attwells S et al, JAMA Psychiatry. 2017 Jun 21. doi: 10.1001/jamapsychiatry.2017.1567. [Epub ahead of print]). LEGGI ANCHE Infiammazione e depressione: citochine all'attacco e Omega 3 in difesa Gli autori della ricerca, tutti farmacologi o psichiatri canadesi, hanno analizzato attraverso un particolare tipo di PET il modo in cui alcune citochine infiammatorie "marcate" si distribuivano in particolari nuclei cerebrali, derivandone in modo altamente significativo che l'infiammazione stessa agiva come induttore e modulatore di alcuni disturbi psico-comportamentali. Si tratta di una considerazione importante, perché può portare a una visione terapeutica innovativa (come ad esempio ha riportato il Corriere della Sera online) oppure ad una visione preventiva attraverso comportamenti e scelte alimentari precise. Già da tempo infatti è noto che un eccesso di carboidrati può portare ad una accentuazione dei fenomeni depressivi e da tempo sono emersi studi che hanno segnalato l'azione antidepressiva di alcuni antinfiammatori. Questo avviene perché le citochine infiammatorie sono dei veri e propri segnali di allarme per l'organismo, che risponde mettendo in moto meccanismi fisici e psichici di risposta ben precisi. L'infiammazione può avere radici di diverso tipo (può dipendere ad esempio da una infezione), ma dipende, ormai lo sappiamo, anche da un certo tipo di alimentazione. Nutrirsi in modo ripetitivo con eccessi alimentari specifici può determinare la crescita di citochine come il BAFF e il PAF (e il TNF alfa) che hanno indiscutibilmente anche degli effetti sul metabolismo, sul sistema psichico e sul sistema muscolare. Il valore delle citochine infiammatorie dipendenti dall'alimentazione è oggi misurabile e molte delle scelte alimentari impostate grazie alla conoscenza del proprio profilo alimentare possono diventare uno degli strumenti più utili per prevenire il disturbo infiammatorio. Oggi sappiamo che anche la "Aspirina" può essere utile nel controllo dei disturbi psichici e comportamentali, ma imparare a migliorare il proprio stato psichico attraverso l'alimentazione può essere un passo importante verso l'autonomia da farmaci e da terapie più complesse.

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