Rosa Borgia

Arte & Intrattenimento

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Chi era Stewart Adams, l'inventore dell'ibuprofene che ha salvato molte mattine storte

2019-02-01 22:30:44

La carriera di Stewart Adams era iniziata per caso a 16 anni, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Un normalissimo apprendistato in una delle farmacie di Boots, il marchio di bellezza e salute più noto della Gran Bretagna fondato nel 1849. Il giovane curioso si appassiona alla chimica farmaceutica e sceglie di votarsi alle catene di composti organici e inorganici per la vita (e la carriera): si laurea in Farmacia a Nottingham grazie al sostegno dell’azienda Boots che lo mantiene agli studi e gli consente di evitare il servizio militare nell’Inghilterra devastata dal conflitto. In un paese in ricostruzione, Stewart Adams lavora perché aumenti la produzione di penicillina. Nel frattempo ha incontrato la giovane insegnante Mary, si è innamorato e l’ha sposata nel 1950. Perché va bene impegnarsi per salvare il modo dai dolori quotidiani, ma per l’amore non c’è farmaco che tenga. Un matrimonio solidissimo che non distrae Stewart Adams dalla sua curiosità di studioso e dal suo impegno: dopo una breve pausa torna a Boots nel 1952, fresco di dottorato in farmacologia a Leeds e pronto a immergersi in uno studio relativo alle relazioni (amorose) tra eparina e istamina nella cura per l’artrite reumatoide, all’epoca trattata soltanto con i corticosteroidi. Che hanno sempre gravi effetti collaterali nei soggetti allergici. Anche l’aspirina, il primissimo FANS scoperto e sintetizzato nel 1897, può avere controindicazioni se assunto in dosi massicce come antidolorifico: reazioni allergiche, emorragie, problemi all’apparato digerente. Quello che serviva era un farmaco in grado di NON causare side effects tali pur intervenendo sul centro del dolore: facile a pensarlo, difficile a farsi.Ci sarebbero voluti anni, precisamente 6, perché nel 1958 la ricerca di Stewart Adams incrociasse la molecola più tollerata e tollerabile. Partendo proprio dalle proprietà dell’aspirina il giovane farmacologo, il chimico John Nicholson e il tecnico di laboratorio Colin Burrows testarono più di 600 composti chimici alla ricerca di quello definitivo. Il loro laboratorio era la cucina di una vecchia casa vittoriana nei sobborghi di Nottingham, dove Boots aveva dovuto spostare la sede per evitare i bombardamenti della guerra. “Ho sempre pensato che ce l’avremmo fatta. Me lo sentivo” raccontò alla BBC. La lunghezza delle analisi non li scoraggiò: la scienza in linea generale è una questione di caso e di tempi, e più di tante altre la chimica si basa su reazioni che possono essere anche lentissime a completarsi. Testardaggine, è il caso di dirlo. Una capatosta tutta britannica per trovare un antidolorifico ideale, la molecola perfetta per le terapie più leggere di contrasto ai fastidi più comuni, e finalmente rimettere l’Inghilterra sul mercato dei produttori farmaceutici in un momento storico particolarmente competitivo, specialmente nei confronti dei titanici Stati Uniti. Ma la strada del successo scientifico è lastricata di realismo: se non funziona, niente da fare. Arrivi ad un punto, prima o poi, in cui ti limiti a tenere le dita incrociate e a sperare che i composti siano efficaci. La prima volta resti speranzoso, mano mano che vai avanti non perdi la speranza ma di certo non lo guardi come se fosse la prima volta” aveva ricordato Stewart Adams al Telegraph nel 2007. La speranza si rinfocolò definitivamente nel 1961, dopo i primi quattro test fallimentari. Era il turno del (RS)-acido 2-[4-(2-metilpropil)fenil]propanoico, questo il nome scientifico del composto chimico che poi sarebbe diventato ibuprofene. Che iniziò a rispondere positivamente alle prime prove. “Era ben tollerato dal corpo ed era quello che cercavamo: che non avesse effetti collaterali eccessivi”. Arrivano i trials clinici qualche anno dopo: tutto bene, le controindicazioni restano sempre basse e sotto controllo. Ma manca ancora il test decisivo, la prova definitiva che il nuovo composto sia in grado di eliminare il dolore più comune. E Stewart Adams l'ibuprofene lo prova da cavia.

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La maschera viso al tè matcha è il detox time di stagione

2019-02-01 22:18:35

Se bevuto aiuta a combattere i radicali liberi grazie alla massiccia presenza di sali minerali, vitamine, caffeina e clorofilla, applicato come maschera viso il tè matcha o tè verde giapponese aiuta l'epidermide a eliminare sia il sebo in eccesso tipico delle pelli grasse sia le particelle più tossiche dell’inquinamento. Lo sanno bene gli skincare brand che hanno creato meravigliose formulazioni detox che contengono questo tè prezioso. Si va dalla polvere rivitalizzante aiuta a rivitalizzare l'epidermide a renderla liscia e uniforme mentre l'aroma fresco ed erbaceo invita al relax. La maschera viso Formula 100% vegan, con aloe cera biologico, tè matcha, estratti di tarassaco, depura, deterge ed esfolia eliminando anche le particelle più tossiche dell’inquinamento atmosferico e previene l’accumulo di impurità. Il detergente idratante con tè matcha antiossidante e olio di semi di canapa ricchi di amminoacidi essenziali e acido linoleico super idratante e antibatterico, aiuta ad alleviare e lenire la pelle infiammata.

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Non solo con sponsorizzata

2019-02-01 20:45:24

Metodi alternativi

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