Rosa Borgia
Arte & Intrattenimento
Impronta ecologica: cos’è?
2019-02-09 23:25:45
L’Impronta Ecologica è un po’ la madre degli indicatori che misurano l’impatto dell’attività umana.Quante risorse preleviamo dal sistema naturale e quanti rifiuti produciamo? Il pianeta regge l’urto, riesce a sostenerci? In sostanza, l’impronta ecologica risponde a queste domande fornendo un quadro della situazione.Prendendo in prestito termini dal mondo dell’economia, in modo da capire bene di cosa stiamo parlando, potremmo dire che la questione riguarda domanda e offerta.L’offerta è data dalle materie prime (cibo, legna per i nostri mobili, acqua…) e i servizi (pulizia dell’aria, stoccaggio dell’anidride carbonica, assorbimento dei rifiuti prodotti…) che l’ambiente mette a nostra disposizione in modo gratuito. Categoria che potrebbe essere sintetizzata sotto al nome, utilizzato nel mondo della ricerca, di “Servizi Ecosistemici“.La domanda, invece, è la richiesta che arriva dalla popolazione mondiale di servizi ecosistemici per supportare gli attuali stili di vita. E qual è, allora, questa richiesta?Impronta ecologica: cos’è l’Overshoot DaySe vogliamo essere precisi, l’impronta ecologica valuta il consumo di risorse rispetto al tasso di rigenerazione del capitale naturale. Negli anni ’70 lo stile di vita condotto dall’uomo era sostenibile: riuscivamo a far bastare le risorse che il mondo mette a disposizione in un anno. Da allora, però, la nostra fame è cresciuta a dismisura.L’overshoot day indica il giorno preciso in cui l’umanità finisce le risorse che il pianeta è in grado di offrire nel corso dell’intero anno. Negli anni ’90 l’overshoot day cadeva nel mese di dicembre e negli anni 2000 si presentava agli inizi di novembre. Lo scorso anno, il 2018, si è invece verificato il primo agosto: un trend spaventoso, che non conosce tregua e che deve portare a riflettere sugli effetti generati dall’attuale sistema economico.Come viviamo quindi fino al 31 dicembre? A debito ecologico: andando a svuotare le riserve naturali accumulate nel corso del tempo e privando di preziose risorse le generazioni future. Un’attività che, però, non può durare ancora a lungo, perché gli ecosistemi vivono ormai una condizione di stress.Basti pensare che il 75% del suolo mondiale è degradato (lo afferma la Commissione Europea con il suo “Atlante mondiale sulla desertificazione”) e che secondo la FAO (Food and Agriculture Organization) negli ultimi tre secoli le aree forestali si sono ridotte di circa il 40%, mentre il Millennium Ecosystem Assesment avverte: il tasso di estinzione delle specie provocato dall’uomo è di 1000 volte superiore a quello naturale.Secondo lo studio che ogni anno effettua il Global Footprint Network, per soddisfare l’intera e attuale domanda mondiale di risorse servirebbero circa 1,7 Terre. A risultare “sostenibili” le nazioni più povere, quelle che ancora devono essere investite dal fenomeno della crescita economica.Tutte le nazioni sviluppate e quelle in via di sviluppo, invece, superano di gran lunga il proprio budget. Ad esempio:se tutti volessimo vivere con lo stile di vita tenuto negli Stati Uniti, il più esigente, avremmo bisogno di 5 pianeti;se vivessimo come l’Australia, al secondo posto della classifica, ci servirebbero invece 4,1 pianeti;seguono Sud Korea con 3,5 e Russia 3,3;se l’intera popolazione mondiale prendesse esempio da noi italiani, servirebbero poco più di 2 terre e mezzo (2,6).Lo studio del Global Footprint Network si basa sui consumi, gli sprechi, il degrado del suolo, la perdita di biodiversità, e così via. Nel calcolo, oltre a rientrare la quantità di materie prelevate dall’ambiente, incide pure la porzione di terreno necessaria ad assorbire i rifiuti prodotti dall’attività antropica.Tra i rifiuti rientrano anche i gas serra immessi in atmosfera e, proprio le emissioni di anidride carbonica, sono il parametro che pesa maggiormente sulla valutazione: rappresentano circa il 60% dell’intera impronta ecologica dell’uomo.
Rosa Borgia
Arte & Intrattenimento
Batterie per il fotovoltaico addio: arriva il fluido che immagazzina energia
2019-02-09 23:08:33
Una svolta per le rinnovabili, arriva dalla Svezia il “combustibile solare termico” che potrebbe mandare in pensione gli attuali sistemi di accumulo, un fluido in grado di conservare l’energia proveniente dal sole per un periodo davvero sorprendente: fino a 18 anni.Una scoperta rivoluzionaria, che offre una soluzione ai problemi che al momento interessano il settore: conservare l’energia prodotta durante la giornata per utilizzarla nei momenti di bisogno, tipo di notte, e rendere la tecnologia conveniente per le tasche dei consumatori.Inoltre, tutto potrebbe tradursi in un vantaggio anche dal punto di vista ambientale. Le attuali batterie per il fotovoltaico basano la propria tecnologia sul litio, un elemento gestito ancora in maniera poco sostenibile sia nella fase di estrazione che in quella di riciclo: le nostre strutture di smaltimento non sono ancora pronte.Senza dimenticare che i fluidi solari termici, sostengono i ricercatori svedesi della Chalmers University of Technology che lavorano al progetto da più di un anno, possono essere riutilizzati diverse volte e il loro impiego è privo di emissioni gas serra.Andando nello specifico, il fluido è fatto di molecole in forma liquida composte da carbonio, idrogeno e azoto. Nel momento in cui la molecola viene colpita dalla luce solare si trasforma in isomero: una nuova molecola capace di intrappolare, grazie a forti legami chimici, l’energia solare anche quando si raffredda e raggiunge basse temperature.Per utilizzare l’energia immagazzinata nel momento del bisogno, basterà indurre la molecola a tornare nella sua condizione precedente: in questo modo l’energia sarà rilasciata sotto forma di calore.Tra le prime firme dello studio, Kasper Moth-Poulsen della Chalmers University, ha dichiarato:L’energia in questo isomero può essere conservata fino a 18 anni. Inoltre i risultati sono stati sorprendenti: il calore ottenuto dall’isomero è maggiore di quello che speravamo.Il progetto, già testato in un prototipo posto sul tetto di un edificio universitario, ha attirato diversi investitori. “Ma c’è ancora molto da fare”, continua Moth-Poulsen, “abbiamo appena messo a punto il sistema, ora dobbiamo garantire che tutto sia progettato in modo ottimale”.Secondo i ricercatori se tutto procede nella giusta direzione la tecnologia potrebbe essere disponibile sul mercato entro 10 anni. La speranza è che il calore generato possa essere in futuro utilizzato per le operazioni di riscaldamento degli edifici e per la produzione di elettricità necessaria al funzionamento dei nostri elettrodomestici.
Rosa Borgia
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Yoga soluzione naturale contro l’artrite reumatoide
2019-02-09 23:03:32