Rosa Borgia

Arte & Intrattenimento

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Ecco come il cambiamento climatico mette a rischio le scorte di pesce

2019-03-19 21:53:56

Nel 2100 alcune zone costiere potrebbero essere sommerse, ettari ed ettari di foreste bruciati, la mappa delle coltivazioni scompaginata. Ma a livello ambientale, c’è un altro scenario, finora meno esplorato, che potrebbe configurarsi entro un secolo: una drastica riduzione della fauna ittica, se già oggi in alcune aree del Pianeta è presente un terzo del pesce e dei crostacei che popolavano mari e oceani un secolo fa. Quanto già accaduto negli ultimi decenni, ha portato a una riduzione (media) del 4,1 per cento della fauna acquatica: con alcune aree (Mare Cinese orientale e Mare del Nord) in cui il calo risulterebbe addirittura compreso tra il 15 e il 35 per cento. Di questo passo, dunque, conviene prepararsi ad avere specchi d’acqua eventualmente più estesi, ma non per questo maggiormente pescosi. Le conclusioni di una ricerca pubblicata sulle colonne della rivista «Science» disegnano uno scenario finora poco considerato, tra le potenziali conseguenze del riscaldamento climatico in atto in tutto il Pianeta. La disponibilità di scorte ittiche è già in calo, da quasi un secolo a questa parte. La presenza di pesce nei nostri mari s’è ridotta parallelamente all’aumento della popolazione mondiale . E, di conseguenza, a quello del fabbisogno alimentare. Immaginando un'ulteriore crescita della popolazione mondiale e la contemporanea riduzione degli stock ittici, si capisce la preoccupazione dei ricercatori: «Occorre evitare la pesca oltre le quote stabilite per legge, per permettere alla fauna di ricostituirsi e di far fronte ai cambiamenti climatici che, già da soli, rappresentano una minaccia per la sopravvivenza di alcune specie», avverte Malin Pinsky, docente di ecologia, evoluzione e risorse naturali alla Rutgers University (New Jersey), tra gli autori dello studio. Tra le possibili soluzioni, gli esperti consigliano il ricorso a una possibile compensazione tra le regioni (o i Paesi) con tassi di pesca più alti e quelli in deficit. In questo modo si potrebbe ridurre l’eccessivo sfruttamento degli stock ittici. A rischio soprattutto molluschi e crostaceiRispetto ad altri studi simili, il valore aggiunto di questo lavoro è che non prevede le perdite per il futuro, ma traccia una stima di quelle già registrate. Il dato è dunque da considerare maggiormente realistico. Tra le specie più a rischio, gli esperti considerano i frutti di mare (soprattutto molluschi e crostacei), che in alcune zone costiere del Pianeta oggi costituiscono quasi il 50 per cento delle fonti proteiche consumate. Gli scienziati hanno studiato l’impatto del riscaldamento oceanico su 235 popolazioni di 124 specie (pesci, crostacei, gamberetti, molluschi), in 38 regioni in tutto il mondo. Le perdite maggiori si sono verificate nelle regioni del Mare del Giappone, del Mare del Nord, della costa iberica, nel Pacifico settentrionale e nel Golfo di Biscaglia. Sono comunque ancora diversi gli aspetti su cui la comunità scientifica è chiamata a interrogarsi: dall’impatto che il riscaldamento delle acque ha nelle zone tropicali (dati ancora limitati) al ruolo che giocano altri fattori quali il contenuto di ossigeno e l’acidità degli oceani. Con il caldo aumentano le specie alieneSe molte specie ittiche hanno visto calare la loro presenza nelle acque di tutto il mondo, ci sono anche quelle che hanno visto crescere la propria diffusione. Si tratta soprattutto di specie tropicali che nel tempo hanno progressivamente accentuato il problema delle specie aliene nei nostri mari. Se oggi il Mediterraneo è popolato da pesci mai visti fino a vent’anni fa, la responsabilità è in parte anche dell’aumento della temperatura del mare, che consente di ambientarsi a specie che arrivano da habitat più caldi (lo stesso fenomeno riguarda anche le specie terrestri e i volatili). La loro presenza può rappresentare un rischio per le specie autoctone, nei cui confronti possono attuarsi forme di predazione che, alla lunga, minano la stabilità di pesci, crostacei e molluschi.

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Il lato oscuro delle ‘lacrime di sirena’, la maggiore sorgente di inquinamento negli oceani di cui non avete mai sentito parlare

2019-03-19 21:49:06

La parola “granuli” può sembrare innocua, ma è qualcosa di molto rischioso per l’ambiente marino. Anche note come lacrime di sirena (mermaid tears), queste piccole palline sono una materia prima nell’industria della plastica. Invece di essere trasformate in articoli per la casa, molte finiscono nel mare, raccogliendo tossine sulla loro superficie che poi sono ingerite dalla fauna marina. Non così innocue, vero?I granuli sono i mattoni fondamentali per la maggior parte degli articoli di plastica, dalle bottiglie monouso agli apparecchi televisivi. Queste piccole palline – misurano normalmente dal millimetro al mezzo centimetro – sono classificate come microplastiche primarie, insieme alle microsfere usate nei prodotti cosmetici; sono piccole all’origine, diversamente da altre microplastiche derivate dalla frammentazione in mare dei rifiuti di plastica più grandi. Le piccole dimensioni dei granuli rendono facile il loro trasporto come materia prima, che poi i produttori fondono e modellano in tutti i tipi di prodotti di plastica. Purtroppo la cattiva gestione di queste sferule durante il trasporto e la produzione porta al loro inconsapevole rilascio nei fiumi e negli oceani attraverso i condotti di scarico, tramite dispersione nel terreno o dai rifiuti industriali. Guarda ancheUn oceano di lacrime di sirenaI granuli: colorati, onnipresenti e letali per la fauna. Lacrime di sirena” è un appellativo azzeccato, considerando il potenziale danno che i granuli hanno sulla vita acquatica. Le loro piccole dimensioni, la sagoma arrotondata e la gamma di colori li rendono cibo attraente – facilmente confusi per uova di pesce o piccole prede. Questo “cibo” ha un ulteriore problema: contiene diverse sostanze chimiche nocive.L’ampio rapporto tra superficie e dimensioni e la composizione in polimeri dei granuli permettono agli inquinanti organici persistenti (i cosiddetti POP, persistent organic pollutants) di accumularsi sulla loro superficie. Le tossine si trasferiscono così ai tessuti degli organismi che li ingeriscono. Il problema è nelle caratteristiche di questi elementi, dove “persistente” vuol dire che non si eliminano facilmente, potendo rimanere per anni sulla superficie dei granuli.I granuli possono inoltre essere colonizzati da microbi pericolosi per l’uomo. Uno studio condotto sui granuli rinvenuti sulle spiagge balneari del East Lothian in Scozia ha rilevato che in tutte e cinque le spiagge studiate i granuli erano rivestiti da Escherichia coli – il batterio responsabile dell’avvelenamento alimentare.I granuli possono essere così nocivi che le persone incaricate della pulizia delle spiagge sono avvertite di non esporsi al contatto diretto con la pelle – facendo sì che prendere il sole sulla spiaggia l’estate non sia più particolarmente attraente.Quanti granuli ci sono negli oceani e sulle coste? Una stima è quella di cinquantatre miliardi di granuli dispersi ogni anno nel Regno Unito dall’industria della plastica. È la quantità di granuli normalmente impiegata per la fabbricazione di ottantotto milioni di bottiglie di plastica.Perché quindi i granuli non compaiono quasi mai nel dibattito sull’inquinamento da plastica?Caccia al granuloI granuli sono la materia prima per molti degli articoli monouso in plastica che usiamo ogni giorno. Per fortuna ci sono organizzazioni che cercano di aumentare la conoscenza dei granuli e della loro preponderanza nell’inquinamento marino. La The Great Global Nurdle Hunt, promossa da Fidra – una non-profit scozzese che si occupa di tematiche ambientali – e la Marine Conservation Society incoraggiano le persone a fare attività di scienza partecipata, raccogliendo dati sulla densità dei granuli nelle spiagge di tutto il mondo.La raccolta dei dati aiuta a identificare le principali sorgenti di questo tipo di inquinamento causato dall’industria della plastica, che potrà usare le informazioni per migliorare la gestione del problema.

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Villa Adriana, per la prima volta aperto al pubblico il Serapeo, uno degli spazi più spettacolari

2019-03-19 21:42:31

A Tivoli, Villa Adriana apre per la prima volta al pubblico il Serapeo: la struttura intendeva riprodurre il Serapeo, ovvero il tempio dedicato al dio egizio Serapide, situato nell’antica città egizia di Canopo, e consiste di un grande padiglione a esedra con, al centro, una vasca lunga 119 metri, circondata da un portico con statue. In antico l’imperatore Adriano utilizzava il Serapeo come luogo per feste all’aperto, tanto più che il padiglione era anche arricchito con giochi d’acqua che intrattenevano gli ospiti. Si tratta di uno degli spazi più spettacolari di Villa Adriana.Il Serapeo è incluso, a partire dal 22 marzo 2019, nel nuovo percorso di visita che svela al pubblico spazi mai aperti prima, tra i quali lo stesso Serapeo, finora inaccessibile per ragioni di sicurezza. Il pubblico potrà anche ammirare dall’alto la volta del Serapeo e avrà la possibilità di osservarlo da uno scorcio inusuale: l’obiettivo è quello di avvicinare lo sguardo del pubblico del 2019 a quello dell’imperatore Adriano. “Se il Teatro Marittimo è la zona privata, intima e riservata di Villa Adriana”, evidenzia il direttore di Villa Adriana, Andrea Bruciati, “il Serapeo è il cuore della mondanità. Entrare nel labirinto di ambienti, cunicoli e sottoscala, è in fondo come entrare nelle stanze del dio. Fino ad oggi il Serapeo ha sempre mostrato la sua facciata, offrendo di sé un’immagine bidimensionale, ora si coglie tutta la profondità, la sua organicità e complessità”.

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