Gattina Ottanta

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Gattina Ottanta

“-Lei aveva la biancheria intima quella sera? -Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? -Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans? -Se le donne non vogliono essere sfruttate devono smetterla di vestirsi da poco di buono. Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo troppo belle o troppo brutte, perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta. Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere alle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri. E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina. Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà. Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e donne in carriera, Madonne o puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E fate che nessuno più ci chieda “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che le è accaduto?” Grazie Rula. Grazie.

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