Le parole del giornalista Massimo Giannini che sta vivendo il Covid sulla propria pelle in terapia intensiva. C’è da riflettere, smetterla di scaricarci colpe uno con l’altro e iniziare a remare tutti insieme:
“Scusate se riparlo di me. Oggi ‘festeggio’ quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ospite ingrato che mi abita dentro. Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro. Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi. Meglio se in organismi giovani, freschi, dinamici. Questa premessa non suoni da bollettino medico: mi racconto solo per spiegare quelle poche cose che vedo e capisco, da questa parte del fronte, dove la guerra si combatte sul serio. Perché la guerra c’è, se ne convincano i “panciafichisti di piazza e di tastiera”, e si combatte nei letti di ospedale e non nei talk show.
Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo. Ma la gente non vuole vedere, e spesso si rifiuta di capire. Così te lo fai raccontare dai medici, dagli anestesisti, dai rianimatori, dagli infermieri, che già ricominciano a fare i doppi turni perché sono in superlavoro, bardati come sappiamo dentro tute, guanti, maschere e occhiali. Non so come fanno. Ma lo fanno, con un sorriso amaro e gli occhi: ‘A marzo ci chiamavano eroi, oggi non ci si fila più nessuno. Si sono già dimenticati tutto...’ Ecco il punto: ci siamo dimenticati tutto.
Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio, i murales con la dottoressa che tiene in braccio l’Italia ammalata, l’inno dai balconi. Possibile? Possibile. La vita continua, persino oltre il virus. E allora rieccoci qui, nella prima come nella seconda ondata, a litigare sulle colpe, a contestarci i ritardi. Come se la tragedia già vissuta non ci fosse servita. L’ho scritto da sano e lo ripeto da malato: le cose non stanno andando come avrebbero dovuto. Ripetiamo gli errori già fatti. Domenica, dopo il mio editoriale in cui lo ribadivo, mi ha chiamato il ministro Speranza per dirmi che è vero, ‘però guarda i numeri dei contagi negli altri Paesi’. Mi ha chiamato il governatore De Luca per protestare e dire che quelle sui disastri dei pronto soccorsi in Campania sono tutte “fake news”. E poi mi hanno chiamato da altre regioni per il caos tamponi, e dai medici di famiglia per dire che loro sono vittime, e poi dai Trasporti per obiettare che sugli affollamenti loro non c’entrano. E poi, e poi, e poi.
E poi il solito scaricabarile italiano. Dove tutti ci crediamo assolti, e invece siamo tutti coinvolti. [...] E scusate se vi riparlo di me: ho infettato anche mia madre, novantenne, malata oncologica, vive sola, come migliaia di anziani, eppure non c’è servizio domiciliare che possa supportarla né medico di base che vada a visitarla, ‘sa com’è, non abbiamo presidi, ci danno cinque mascherine chirurgiche a settimana’: di chi è la colpa? Ne parlo con i dottori dell’ospedale. La risposta è durissima: noi siamo qui in trincea, ogni giorno, in questi mesi ci hanno dato l’una tantum Covid da 500 euro lordi e cari saluti, i nostri colleghi “sul territorio” chi li ha visti?
Non recrimino, non piango. Vorrei solo un po’ di serietà. Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del «non possiamo chiudere tutto» cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono. Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo ced