“Eravamo alla selezione nel campo di concentramento. Io avevo 13 anni, Janine, la mia bella capo squadra, aveva una decina d’anni più di me, aveva perso due dita in un macchinario della fabbrica di munizioni dove lavoravamo.
L’ufficiale tedesco davanti al quale dovevamo sfilare nude per essere scelte mi fece un cenno del capo e capii che io ero salva. Ma quando passò Janine, sentii che la bloccavano e capii che non l’avrei più vista. Io non mi fermai a guardarla, non la salutai, non la nominai, non le dissi ‘ti voglio bene, fatti coraggio’.
Ero diventata orribile, non accettavo più distacchi. Da allora, ho raccontato sempre di questa figura perché il suo non diventare donna, madre e vecchia, come oggi sono io, era legato al mio non essere, al mio aver perso ogni dignità, ogni senso di quella persona che io speravo di diventare.
Vorrei che vi ricordaste di Janine, perché solo io mi ricordo di lei e trasmetto questo nome a voi, prendetelo per favore per mano”.
Le parole di Liliana Segre nel suo ultimo incontro pubblico, in cui ha inaugurato l’Arena di Janine, nella cittadella della Pace ad Arezzo.