Lavori d'altri tempi...Il barilaro a Conflenti
Tra gli artigiani scomparsi c’è il barilaro, che faceva vari oggetti in legno, specialmente i grandi contenitori per l’acqua: il barile o meglio ‘u varrile. Realizzato, in varie misure, con listoni di legno aderenti, sostenuti da quattro cerchi metallici, aveva la forma di una piccola botte. Pur essendo un manufatto ligneo, non lo costruiva il falegname ma l’artigiano specifico: ‘u varrilaru. La bocca sulla sommità era chiusa con un tappo di sughero, collegato con uno spago al corpo dell’utensile. I barili venivano riempiti nelle fontane sorgive. Stando nell’umido, s’impregnavano del tanfo della muffa, perciò solitamente le famiglie ne utilizzavano l’acqua per cucinare e per la pulizia.
La mancanza di acqua nelle abitazioni aveva generato una classe di lavoratrici apposite, le portatrici d’acqua, che rifornivano quotidianamente le famiglie benestanti. Il prezzo era concordato in relazione ai “viaggi dell’acqua”, ossia a quante volte la portatrice andava a riempire il barile. Essendo un utensile molto voluminoso e dovendolo trasportare senza alcun mezzo, le donne lo portavano sulla testa, che proteggevano con il cercine (‘a curùna o tùorcinu); erano veloci e abili ad avvolgere nella forma apposita di cerchio un vecchio strofinaccio. Le portatrici più abili e vigorose sostenevano il barile con una sola mano, in modo da ottimizzare il “viaggio” portando un altro recipiente e migliorare la paga. La postura eretta, necessaria per mantenere il barile, conferiva alle portatrici giovani un’andatura che oggi definiremmo da indossatrice, in evidente contrasto con il loro abbigliamento umile.
In casa, il barile veniva poggiato su due assi all’interno di una nicchia ricavata ad una certa altezza nel muro, da dove attingere direttamente, oppure su un’apposita struttura lignea (‘u tìenivarrìle). Nello spazio sottostante stazionava un secchio per gli scoli: il rifornimento dell’acqua costava fatica e denaro, e neppure una goccia doveva essere sprecata.
Lo stesso artigiano costruiva i tini: i ruvàgi. Contenitore di legno di varie misure. Vi si conservavano provviste destinate a durare un intero anno, perlopiù cipolle all’aceto.