Laura Lupini
Messner, il Narga Parbat e la scalata che fa sempre più paura Non fosse bastata la tragedia di Nardi, e le polemiche che ne sono seguite, i campi alti dove fanno base gli alpinisti che osano sfidare il Nanga Parbat (un ottomila del Pakistan che i locali chiamano “la montagna mangiauomini” e che è conosciuto nell’ambiente degli scalatori come “the killer mountain”) sono di nuovo a rischio valanghe e registrano altri incidenti, per fortuna ancora nessuno mortale. In questi giorni, tra gli altri aspiranti recordman dell’Ottomila più pericoloso, si registra anche lo sciatore estremo italiano Cala Cimenti, che sta tentando di salire in cima per poi provare la discesa con gli sci lungo il versante Diamir. Cimenti è partito per l’ascensione il 19 giugno, con due compagni russi, dopo aver invano atteso l’arrivo al campo base di Reinhold Messner, che doveva compiere una perlustrazione accompagnato dal figlio Simon. L’alpinista mito altoatesino, nelle sue nuove vite, è spesso affiancato dai figli: la maggiore, Magdalena, è responsabile del gruppo dei Messner Musei della Montagna e il giovane Simon, classe 1991, è il braccio destro del padre quando lavora come regista e autore cinematografico. Peraltro Simon Messner, appena finirà di sbrigare la pratica dei sopralluoghi con il padre per il film intorno al Nanga Parbat, ha annunciato che farà cordata con altri due alpinisti austriaci di alto livello, Martin Sieberer e Philipp Brugger, per tentare di scalare la bellissima Muztagh Tower, 7mile e 276 metri, al confine tra il Gilgit-Baltisan e la Cina, nell’area del Karakorum. Si tratta di una torre di ghiaccio la cui arditezza fu celebrata già nel 1909 da una fotografia del nostro Vittorio Sella, e poi oggetto giusto di un pugno di salite, dal 1956 al 2013, quando una cordata russa tracciò una via da nord-est che valse il prestigioso premio Piolet d’Or. Quando si parla di Messner e di Nanga Parbat la memoria di tutti corre all’episodio più tragico della carriera del re degli Ottomila, la perdita del fratello – e fortissimo compagno di cordata di tante prime dolomitiche da capogiro – Gunther, avvenuta proprio durante la discesa dal Nanga Parbat, improvvisata lungo il versante allora inesplorato del Diamir. Un episodio su cui non sono mancate le polemiche più feroci, anche perché bisogna considerare che all’inizio degli anni Settanta Messner era già molto invidiato nell’ambiente alpinistico borghese tradizionale, dove aveva sfidato pregiudizi e regole consolidate. Dopo la tragedia Reinhold è tornato poi almeno altre quattro-cinque volte sul Nanga Parbat, per riuscire a vincere di nuovo quella montagna così dura, e tagliare corto con i sospetti di chi aveva addirittura sostenuto che non erano arrivati in cima lui e Gunther, nonché ovviamente per cercare di recuperare il corpo del fratello. Per anni Reinhold ha finanziato un gruppo di guide locali che hanno battuto la zona dove ricordava di aver perso il fratello e infine, nel 2005, furono ritrovati varie parti del corpo e delle attrezzature di Gunther, che furono bruciati in un funerale di stile tibetano. Reinhold riuscì però a nascondere un pezzo della tibia del fratello e altre piccole ossa, e ha voluto riportare quei pochi resti in Italia, per seppellirli nella tomba di famiglia in quel di Funes, il paesino da cui prende il nome una delle valli più belle e incontaminate dell’Alto Adige, ai piedi delle pareti nord del gruppo delle Odle. Dinanzi a quella tomba, chi ha letto alcuni dei bei libri scritti dal grande alpinista, si trova a rievocare una storia che se non fosse tragicamente vera sarebbe fin quasi letteraria: oltre alle spoglie del padre e del fratello maggiore, riposano nel cimitero di Funes i corpi della madre e dell’altro fratello alpinista di Reinhold, Siegfried, il minore, morto nel 1985 mentre scalava tra le sue Dolomiti dove lavorava come guida, ed era conosciuto per la particolare prudenza.
Laura Lupini
Nanga Parbat, primati e pareti Nella ristretta cerchia degli ottomila è la seconda montagna per mortalità: ecco cosa hanno tentato di scalare Nardi e Ballard Nanga Parbat Daniele Nardi ha dedicato gli anni migliori della sua carriera, i suoi sogni e la sua determinazione a lasciare un segno nella storia dell'alpinismo. Giusto quindi raccontare cos'è il “Nanga” e, così facendo, rendere omaggio al coraggio di Daniele ed a quello del suo compagno di cordata Tom Ballard, inghiottiti dalla montagna nel tentativo di scalarne – in pieno inverno - una delle vie più complicate. Tenendo bene a mente che, se nella graduatoria d'altezza dei quattordici Ottomila occupa solo il nono posto, la grande montagna pakistana è invece la seconda per mortalità dopo l'Annapurna (e addirittura davanti al K2) con il 28% dei decessi in rapporto al numero degli scalatori giunti in vetta. Il Nanga Parbat, le sue pareti ed i suoi primati, potremmo dire. Un sistema montuoso piuttosto isolato rispetto ai giganti del Karakorum e dall'Himalaya e dall'aspetto simile a quello di un colossale catino. Più … nobilmente un anfiteatro, la cui concavità, rivolta a nordovest, è occupata dalla parete Diamir, al centro della quale si trova lo Sperone Mummery, oggetto dal 2013 al presente delle attenzioni di Nardi: un colossale “naso” di roccia incrostata di ghiaccio, conficcato nel mezzo della parete stessa, che si sviluppa verticalmente per un migliaio di metri e sfocia nel plateau glaciale soprastante, sul quale è come “poggiata” la piramide sommitale, che culmina agli 8126 metri della vetta principale. In pratica un montagna piazzata sopra un'altra montagna. Prima che da Nardi, Ballard e da decine di altri alpinisti, il Nanga Parbat alle origini della storia dell'alpinismo è stato studiato da Albert Frederick Mummery che ha dato il suo nome allo sperone teatro della recente tragedia, e che perse la vita nel 1895 nel corso di una scalata di ricognizione in direzione di un altro versante della montagna: la parete Rakhiot, rivolta a nord-est e scelta da Hermann Buhl per la prima ascensione fino alla vetta (nel 1953, in solitaria e senza l'ausilio delle bombole d'ossigeno). Toni Kinshofer, autore nove anni dopo della seconda scalata, (dal versante Diamir, itinerario che ancora oggi rappresenta la via normale) sulla strada del ritorno vi perse un compagno di cordata subendo (lui stesso ed un altro compagno) gravi congelamenti ed amputazioni ai piedi ed alle mani. Vi ebbero origine anche le peripezie di Heinrich Harrer, rese note prima dalla letteratura d'avventura (“Sette anni in Tibet”) e più recentemente amplificate dal cinema. D'altra parte, per gli alpinisti tedeschi e l'ideologia nazista tra le due Guerre Mondiali il Nanga Parbat era - piuttosto sinistramente - lo “Schicksalberg” per eccellenza: la Montagna del Destino. Le popolazioni di lingua urdu lo chiamano “montagna nuda”, gli sherpa himalayani “mangiauomini” e “montagna del diavolo”, mentre per gli alpinisti del resto del mondo è “Killer Mountain”, la montagna assassina. Lungo la parete Diamir perse la vita nel 1970 Guenther Messner (dopo aver toccato la vetta salendo insieme al fratello Reinhold – primi nella storia - dal versante Rupal) nel corso di una drammatica discesa che per trentacinque anni ha rappresentato un caso dolorosamente aperto, con lo stesso Reinhold ingiustamente accusato di aver abbandonato il fratello. E se la Mazeno Ridge con i suoi oltre dieci chilometri di sviluppo è considerata la cresta più lunga al mondo (origina dalla vetta, allinea nel suo percorso otto vette sopra i settemila, descrive un arco costante per poi “sterzare” bruscamente e spegnersi nel ghiacciaio Diamir), temutissima è anche la terza grande parete della montagna: la Rupal, teatro della vicenda Messner 1970, che guarda verso sud e dalla sua base raggiunge la vetta della montagna con un salto verticale di oltre quattromila metri che ne fa la parete continua più alta del mondo: un altro dei primati del Nanga.
Laura Lupini