Silvano Di Mattia
Dedicato a chi come me, queste canzoni evocano bei ricordi.
Silvano Di Mattia
La parte posteriore era spettacolare. La coda lunghissima terminava con due fanalini rossi, a forma di occhio socchiuso, e il grande cofano del bagagliaio sembrava sollevarsi gradualmente dalla fiancata, scolpendo nella carrozzeria la forma di due ali di pipistrello. Ci volevano tanti passi, partendo dalla coda, per arrivare al frontale dove i fari anteriori erano doppi ed enormi, incorniciati da una griglia d’acciaio brillante. Ripetevano anch’essi la forma di occhi minacciosi, sovrastati da due prese d’aria che facevano da sopracciglia. Mi accorsi che lungo i pannelli interni non vi erano manovelle. Come avevano fatto ad abbassare i vetri? Al loro posto vi erano dei larghi pulsanti di metallo lucido . Allungai il braccio e sfiorai il comando elettrico che azionò immediatamente la risalita del piccolo cristallo posteriore, facendomi fare un balzo all’indietro per lo spavento. In realtà non era la fuoriuscita del cristallo ad avermi spaventato ma il rumore del dispositivo, sommato alla colpevole consapevolezza di aver messo le mani su una proprietà non mia. Nel frattempo, un operaio del vicino forno aveva abbandonato momentaneamente la sua cesta di friselle da imbustare e si era avvicinato anche lui a curiosare. Mezz’ora dopo, la voce che c’era una “macchina americana” vicino al forno di via Principe di Napoli si era sparsa in tutto il rione e tanti ragazzi e adulti arrivarono sul posto per ammirare quello splendore. Ognuno volle dire la sua, c’era chi citava un attore o un film, chi chiamò il fotografo per farsi immortalare a imperitura memoria (negli anni ’60 era d’uso farsi fare dei ritratti con lo sfondo di una bella auto). Qualcuno, sbirciando il tachimetro, disse che la velocità massima “faceva schifo”, subito corretto da un giovanotto esperto che fece notare che la velocità era in miglia orarie e non in chilometri. Tutti vollero azionare gli alzacristalli elettrici per cui, per un buon lasso di tempo, i vetri verdi andarono su e giù fino a quando ognuno ebbe provato il comando e qualcuno avvertì che si rischiava di far “scaricare le pile” e di lasciare a piedi il proprietario. Il proprietario non si vide mai, ma poi si seppe che quel misterioso conducente, proprietario non lo era mai stato. L’auto, con targa svizzera, era stata affittata da un emigrante, a Zurigo, per trascorrere le vacanze estive in Italia. Un modo per ostentare un apparente benessere ai compaesani, dopo aver subito, per lungo tempo, le sofferenze della sua condizione. Una sorta di riscatto sociale, pagato in franchi, testimoniato da uno status da esibire, anche solo per pochi giorni. Continuò a fare caldissimo, in quei giorni di agosto. L’auto spariva a metà mattinata e rientrava nel tardo pomeriggio, e così per circa una settimana, fino a quando, una mattina, dal mio letto ascoltai un vociare sommesso giù in strada, poi gli scatti secchi di cofani e sportelli e il sibilo elettrico della grande capote che si richiudeva, sigillandosi al parabrezza. Sentii, poi, il rombo cupo e inconfondibile degli otto cilindri che si risvegliavano dal torpore della sosta. Mi affacciai mentre la grande automobile partiva con dolcezza, dondolandosi sulle quattro ruote con la fascia bianca mentre qualcuno, all’interno, salutava i parenti rimasti sul marciapiede di fronte. Non ritornò mai più. Sul mio quaderno scrissi il nome di quell’auto: Impala, per ricordarlo per sempre. E per molto tempo, quando i miei compagni di scuola mi chiedevano quale fosse la mia auto preferita, io rispondevo “ L’Impala”, suscitando la loro ilarità nel sentire quel nome così strano. Ma loro non sapevano, non ne conoscevano neanche l’esistenza, mentre io l’avevo vista e toccata! di Lorenzo De Donno da Quarta Marcia seconda ed ultima parte.
Silvano Di Mattia