Maria Domenica
Adda (Idillio a Vincenzo Monti) di Alessandro Manzoni Diva di fonte umil, non d'altro ricca Che di pura onda e di minuto gregge, Te, come piacque al ciel, nato a le grandi De l'Eridano sponde, a questi ameni Cheti recessi e a tacit'ombre invito. Non feroci portenti o scogli immani Né pompa io vanto d'infinito flutto O di abitati pin; né imperioso Innalzo il corno, a le città soggette Signoreggiando le torrite fronti; Ma verdi colli e biancheggianti ville E lieti colti in mio cammin saluto E tenaci boscaglie, a cui commisi Contro i villani d'Aquilone insulti Servar la pace del mio picciol regno e con Febo alternar l'ombre salubri. Né al piangente colono è mio diletto Rapir l'ostello e i lavorati campi, Ad arricchir l'opposta avida sponda, Novo censo al vicin; né udir le preci Inesaudite e gl'imprecanti voti De le madri, che seguono da lunge Con l'umid'occhio e con le strida il caro Pan destinato a la fame de' figli, E la sacra dimora e il dolce letto. Sol talor godo con l'innocua mano Piegar l'erbe cedenti, e da le rive Sveller fioretti, per ornarmi il seno E le treccie stillanti. Né gelosa Tolgo a gli occhi profani il mio soggiorno, Ma dai tersi cristalli altrui rivelo La monda arena; anzi sovente, scesi Dai monti Orobj, i Satiri securi Tempran nel fresco mio la siria fiamma, Col pie' caprigno intorbidando l'onda. Ben al par d'Aretusa e d'Acheloo, Vanta natal divin e sede arcana, Sacra ai congressi de le Aonie suore; Pur soave ed umil vassi Aganippe Su la Libetride erba mormorando. Ben so che d'altro vanto aver corona Pretende il Re de' fiumi, e presso al Mincio, Del primo onor geloso, ancor s'ascolta Fremer l'onda sdegnosa arme ed amori; E so ch'egli n'andò poi de la molle Guarinia corda, or de la tua superbo; Ma non vedi con l'irta alga natia Splendermi il lauro in su la fronte? Salve, Vocal colle Eupilino: a te mai sempre Sul pian felice e sul sacrato clivo Rida Bacco vermiglio e Cerer bionda; Salve onor di mia riva: a te sovente Scendean Febo e le Muse Eliconiadi, Scordato il rezzo de l'Ascrea fontana. Quivi sovente il buon Cantor vid'io Venir trattando con la man secura Il plettro di Venosa e il suo flagello; O traendo l'inerte fianco a stento, Invocar la salute e la ritrosa Erato bella, che di lui temea L'irato ciglio e il satiresco ghigno; Seguialo alfine, e su le tempia antiche Fea di sua mano rinverdire il mirto. Qui spesso udillo rammentar piangendo, Come si fa di cosa amata e tolta, Il dolce tempo de la prima etade; O de' potenti maledir l'orgoglio, Come il Genio natio movealo al canto, E l'indomata gioventù de l'alma. Or tace il plettro arguto, e ne' miei boschi È silenzio ed orror; Te dunque invito, Canoro spirto, a risvegliarmi intorno Novo romor Cirreo. A te concesse Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi E le immagini e l'estro e il furor sacro E l'estasi soave e l'auree voci Già di sua man rinchiuse. A te venturo Fiorisce il dorso Brianteo; le poma Mostra Vertunno, e con la man ti chiama. Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga, Già m'apparecchio a salutar da lunge L'alto Eridano tuo, che al novo suono Trarrà maravigliando il capo algoso, E fra gl'invidi plausi de le Ninfe, Bella d'un inno tuo, corrergli in seno.
Maria Domenica
Maria Domenica