Maria Domenica
Maria Domenica
A PARTENEIDE E tu credesti che la vista sola Di tua casta bellezza innamorarmi Potente non saria, che anco del suono Di tua dolce parola il cor mi tenti, Vergine Dea? Col tuo secondo Duca Te vidi io prima, e de le sacre danze O dimentica o schiva; e pur sì franco, Sì numeroso il portamento e tanto Di rosea luce ti fioriva il volto, Che Diva io ti conobbi, e t’adorai. Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieto D’amor primiero ti porgea la destra, Di sì fidata compagnia, che primo Giurato avrei che per trovarti ei l’erta Superasse de l’Alpe, ei le tempeste Affrontasse del Tuna, e tremebondo Da la mobil Vertigo, e da l’ardente Confusïon battuto, in sul petroso Orlo giacesse2. Entro il mio cor fean lite Quegli avversari che van sempre insieme, Riverenza ed Amor: ma pur sì pio Aprivi il riso, e non so che di noto Mi splendea de’ tuoi guardi, che Amor vinse, E m’appressai securo. E quel cortese, Di cui cara l’immago ed onorata Sarammi infin che la purpurea vita M’irrigherà le vene, a me rivolto, Con gentil piglio la tua man levando, Fea d’offrirmela cenno. Ond’io più baldo La man ti stesi; ma tremò la mano E il cor: chè tutto in su la fronte allora Vidi il dio sfolgorarti, e tosto in mente Chi sei mi corse, ed in che pura ed alta Aria nutrita, ed a che scorte avvezza. Mesto allor la tua vista abbandonai; Ma l’inquïeto immaginar, che sempre Benchè d’alto caduto in alto aspira, Sovra l’aspro sentiero a vol si mosse Del tuo vïaggio, e a te fidato, al sommo Stette de l’Alpe, e si librò securo Sovra i vestigi e i desidèri umani. Poi riverito il tuo celeste nido, Di pensiero in pensier, di monte in monte, Seguitando il desìo, vêr la mia sacra Terra drizzai le penne, ed i cognati Rèti giganti valicando, alfine Vidi l’Orobia valle. Ivi un portento Al mio guardar s’offerse: una indistinta Aeria forma or si movea qual pura Nuvoletta d’argento, ed or di neve Fiocco parea che un bel cespuglio vesta. Ma pur l’immagin bella e fuggitiva Tanto con l’occhio seguitai, che vera Alfin m’apparve, a te simìle alquanto, Vergin nè tocca nè veduta ancora, E d’immortal concepimento anch’ella. Non tenea scettro, non cingea corona Se non di fiori; e sol di questi vaga, Fra i color mille, onde splendea distinta La verdissima piaggia, or la vïola, Or la rosa sceglieva, or l’amaranto, Tal che Matelda rimembrar mi féo, Qual la vide il divin nostro Poeta Ne l’alta selva da lui sol calcata. Ed ecco alfin, del mio venire accorta, Volger le luci al pellegrin parea Piene di maraviglia, e la rosata Faccia levando, mi parea guardarlo, E sorridere a lui come si suole Ad aspettato. E quando io de la diva Bellezza innebrïato e del gentile Atto, con l’ali de la mente a lei Appressarmi tentai, se udir potessi Come in cielo si parla, affaticate Caddero l’ali de la mente, e al guardo Tacque la bella visïon. Ma sempre Da quel momento la memoria al core Di lei ragiona. E quando in sul mattino Leve lo spirto dal sopor si scioglie (Allor per l’aria de’ pensier celesti Libero ei vola, e da le basse voglie De la vita mortal quasi il divide Un deserto d’obblio), sempre in quell’ora, Più che mai bella, quella eterea Virgo Mi vien dinnanzi. Or d’oro e d’onor vani Nessun mi parli; un solo amor mi regge, Sola una cura: degli Orobi dorsi Rivisitar l’asprezza, e questa Diva, Deh! mel consenta! accompagnar primiero Per le italiche ville pellegrina. Che se l’evento il mio sperar pareggia, Se nè la vita nè l’ardir mi falla, Forse, più ardito condottier già fatto, Ti piglierò per mano; e come valgo, Maraviglia gentile alla mia sacra Italia io mostrerotti, a quella augusta D’uomini Madre e d’intelletti, augusta Di memorie nutrice e di speranze.
Maria Domenica