"Uomo e personaggio prima, e solo poi veniva l'attore": aveva ragione Marco Ferreri quando, nel ricordare l'amico, racconta così Ugo Tognazzi. Perché poi il più autentico tratto distintivo di questo interprete formidabile del versante "normale" e "medioborghese" della commedia all'italiana è stata proprio l'umanità: dissimulata nel personaggio e manipolata dall'attore, ma mai disabitata dalla persona. Questione di calore, di energia che circola fra i corpi, sensazione di familiarità con la vita, capacità di tenere insieme (la famiglia, i colleghi, la troupe... ), ma anche di disunire (la quieta società italiana dell'era scudocrociata, le sue certezze, le tesi e le antitesi della bassa morale). L'umanità raccontata e vissuta nella sua sfaccettata armonia, fatta di una coralità del sentire che abbracciava l'ampia sfera delle sue amicizie attorno all'antico desco strapaesano ribaltato nella raffinata tavola del gourmet che animava con piglio orgoglioso per il suo clan. È destinata quella coralità ad essere rivoltata, negli anni estremi, nel buco nero di una depressione che raccontò per intero l'angoscia di morte da sempre nutrita nel suo cuore (e non di rado portata sullo schermo, nei suoi film da regista ma non solo). Ugo Tognazzi sta al cinema italiano come l'anti-maschera per eccellenza: dimenticando la contemporaneità, le cronologie e le biografie, Sordi, Mastroianni, Gassman e Manfredi potrebbero esserne le sfaccettature, tutti segnati da tratti distintivi molto più di quanto sia accaduto a Tognazzi, che invece eccelleva per l'indefinitezza (forse anche l'infinitezza) della sua presenza: mimetica rispetto ai tempi e ai vizi della quotidianità, borghese, se volete, per la capacità del suo personaggio di stare comodamente tra le fila. Non sarà mica per nulla che il Nostro è stato uno degli "inventori" della televisione italiana, non un "mattatore" si noti, ma il numeratore (Un, due, tre, tante quante le telecamere in studio) di una complicità a mezza voce col pubblico di casa, catodizzando quel proscenio che aveva battuto negli anni della rivista, ma soprattutto inventando I'a tu per tu con quella che all'epoca ancora si poteva chiamare "gente". Acido, certo: il suo stare sulla scena dello spettacolo (cinematografico) non riusciamo a definirlo che acido; sinonimi: aspro, agro, amaro, forte, ma anche maligno, pungente, bisbetico... Se pensate alla lucidità con cui più di tutti gli altri Tognazzi ha saputo tracciare la linea d'ombra che separava la società italiana dalla fine della sua infanzia, un gusto asprigno non può che restarvi in bocca. Quello che ha narrato è stato l'umanesimo inacidito, o forse solo inurbato, di un popolo all'epoca adibito troppo velocemente ad abitare la quinta potenza economica mondiale. La parabola era calante, e Tognazzi l'ha cavalcata con lo sguardo sornione di chi troppo presto ha capito tutto. Forse per questo opponeva la sua umanità grassa, pienamente umorale, felicemente dedita alla vita, al lento funerale civile che si srotolava come patetico corteo lungo le strade del nostro paese. È stato il più politico dei nostri interpreti, certo. Nel senso che più di chiunque altro ha (s)offerto la sua maschera d'italianità come una perifrasi implicita e cinica della consapevolezza del declino. Nessuna connivenza, ma una affettuosa convivenza si, quella si, dopo tutto... Amava essere amato, riconosciuto, applaudito; necessitava di conferme, di consenso, di sicurezze; si portava dietro la "puzza" del comico come quel fischio che proprio non andava via dal naso del personaggio buzzatiano del suo film da regista che più amava: una "puzza" che cercava di lavare via in ogni modo, cercando d'essere finalmente considerato (dalla critica) quello che era: un attore, e non lamentò una volta come un atleta, che può essere o non essere "in forma". In realtà non è poi difficile riconoscere le qualità dell'attore Tognazzi, il suo innato talento, la forza di un'interpretazione costruita sulla normalità del gesto, sulla fuga dalla "maschera". Così come non è certo difficile riconoscere le caratteristiche dell'uom