Enzo Zevini

Top Founder President

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Mi sono alzato presto, come faccio tutte le mattine. Sono uscito da casa alla ricerca di un bar che a quell'ora fosse disposto a farmi un caffè. Da tempo non ho più fretta, amo il tempo che dedico ai rituali prima di iniziare la giornata. Mi sono seduto al tavolo con la tazzina di caffè in mano, osservando il riflesso di me stesso sulla vetrina del bar. Da tempo in quella figura vedo mio padre, mia madre, tratti della mia famiglia, e rifletto su un passato decisamente più lungo del futuro, la mia storia: gioie, sofferenze, vittorie, sconfitte, successi, fallimenti, linee del tempo segnate sulla pelle, segni scavati sul volto destinati a farsi sempre più profondi. Ho bevuto il caffè e acceso la prima sigaretta del mattino, quella a cui proprio non riesco a rinunciare. Ho aspirato fino a riempirmi i polmoni, ed espirando ho gettato via tutto quello che non sono da tempo, lasciando andare quei pezzi di vita che troppo spesso ci ostiniamo a trascinare, pesi inutili che non servono più. La cosa bella degli anni che passano è la consapevole certezza che non puoi, ma soprattutto non vuoi perdere tempo a inorgoglirti per i successi avuti, e ancor meno a rimuginare sugli errori, i fallimenti, eventi passati dove non puoi più niente. Mi sono alzato, e lasciando le monete sul tavolo ho guardato di nuovo l'uomo riflesso sul vetro: era ancora seduto, fermo, con la mascella serrata osservava un punto indefinito davanti a lui, arrovellandosi su quello che non può più cambiare, ancora abbracciato alla sua storia, storia che influenza il suo presente, quella che lo terrà in ostaggio fino a quando non avrà il coraggio di lasciarla andare via. Foglinediti

Enzo Zevini

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Il telefono appoggiato sul sedile lato passeggero ha iniziato a squillare: guidavo con attenzione, veniva giù tanta di quella pioggia da non riuscire a vedere la strada. Non avevo indossato gli auricolari, ma al nome lampeggiante sul display non potevo non rispondere. Così ho fatto quello che non faccio mai, ho preso il telefono è l'ho avvicinato all'orecchio. - Pronto? - Ciao. Come stai? - "Oddio" è tantissimo che non ci sentiamo. - un anno, forse di più. Ho iniziato a fare il "cazzone", così, come facciamo noi uomini quando parliamo tra di noi, due tre battute, aspettando una replica dall'altra parte, e invece silenzio. - Ci sei? - Sì, sono qua. Non mi hai risposto: come stai? - Bene. - Volevo solo dirti che mi sei mancato, e che ti voglio bene. - È successo qualcosa? - No, niente, volevo sentirti. Per un po' sono rimasto in silenzio, imbarazzato da quelle parole. Poi gli ho detto che ero in autostrada, pioveva e non avevo indossato gli auricolari, e che al prossimo autogrill mi sarei fermato e lo avrei richiamato. C'è una cosa che invidio alle donne: la capacità di provare le emozioni e tramutarle nell'immediato in parole. Per noi uomini, vai a capire per quale motivo, risulta così difficile: forse per cultura, ambiente, retaggi del cazzo come "l'uomo che non deve chiedere mai", lo sappiamo, ma cambiare poi ci riesce sempre così difficile. Io per esprimere le emozioni le devo scrivere, ho bisogno della carta e di una penna, forse è per questo che anni fa ho iniziato, per capire qualcosa in più di me, della vità, di quello che avevo intorno. Mi sono imbarazzato, perché a dirmi ti voglio bene era stato un uomo. Per quanto penso di essere avanti, a volte mi ritrovo muto davanti a qualcosa che non mi aspetto, imbalsamato di fronte alle parole d'affetto di un amico. Noi maschietti davanti alle emozioni, più che uomini, siamo ominidi, più vicino ai primati che agli essere umani: ma riflettendo, forse, i primati hanno capacità emotive migliori delle nostre. Mi sono fermato nell'area di sosta, ho digitato il numero. Finalmente aveva smesso di piovere. - Pronto. - Hey, prima non te l'ho detto: ti voglio bene anch'io. FOGLINEDITI

Enzo Zevini

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Mio figlio è tornato a Roma, per due anni ha vissuto a Verona. Sono andato a trovarlo appena potevo: una, due, anche tre volte in un mese. Il tempo di una passeggiata, un caffè, al massimo un pranzo insieme se era possibile. In casi eccezionali una cena: poi lo lasciavo lì, alla sua vita, ai suoi studi, al suo lavoro. Mi piace vederlo appassionato mentre fa le sue cose, quando mi racconta dei sogni, della musica che ascolta, delle esperienze che fa ogni giorno, e anche delle delusioni, quelle non mancano mai, è la vita. Mio padre era un uomo rigido, un buon padre, anzi un ottimo padre: ma non era il genitore che avrei voluto diventare. Tuttavia, ho imparato a mie spese che l'essere umano non è altro che un replicante, e si comporta spesso come non vorrebbe. Non facciamo quasi mai quello che pensiamo sia giusto, facciamo solo quello a cui siamo abituati. Ciò che è familiare è di gran lunga più potente di quello che vorremmo fare. Pensiamo, poi facciamo il contrario. Sono passati anni, eppure lo ricordo come adesso. Mio figlio aveva quattro anni. Non so cosa aveva combinato, lo sgridai. Le parole che mi uscirono, erano le stesse che mi rivolgeva mio padre, ma la cosa inquietante fu il tono della voce: era lui a parlare, non io, non potevo essere io. Siamo intrappolati nelle nostre memorie, e non ci rendiamo conto di quanto siano presenti in noi chi ci ha preceduto e l'ambiente dove siamo cresciuti. Se potessi fare ancora qualcosa per mio figlio, ora grande, vorrei liberarlo da quello che potrebbe impedirgli di essere sé stesso, augurargli di ritrovare la sua essenza, quella che hanno i bambini prima di indurli, anche non volendo, a somigliare agli adulti. Mio padre era un genitore fragile, l'ho scoperto tantissimi anni fa, quando ormai non c'era più. Chissà quanto doveva pesargli quell'armatura, ma essere genitore e anche questo: fare e dire cose che non pensiamo, perché a essere e a comportarci per quello che siamo, non ce l'ha insegnato nessuno. FOGLINEDITI

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