Lorenzo Manfredini

'Le difese dal dolore' di Lorenzo Manfredini

2018-12-08 08:54:24

Abbiamo visto che nelle prime fasi di elaborazione del lutto ci si protegge con meccanismi di difesa per fuggire dal dolore.Fuggire dal dolore fa pensare a qualcosa che ha a che fare con la sopravvivenza immediata da un pericolo travolgente e possiamo considerarla, almeno in prima istanza, sana e naturale.Ogni meccanismo che andremo ad analizzare, pertanto, potrà avere angolazioni utili, lati sfavorevoli e durata più o meno giustificabile.I meccanismi di difesa individuati da Freud e successivamente integrati da altri autori sono oltre 20. Ne esamineremo alcuni legati alla elaborazione del lutto, che sono: rabbia- negazione - svalorizzazione - autosvalutazione - idealizzazione - dare la colpa ad altri - rimuginare sulla domanda infinita: ‘perché ...?’RabbiaLa rabbia nasce dalla primordiale reazione-azione di attacco e fuga e la sua zona di attivazione si situa nel nostro cervello rettiliano. Secondo autori come P. Mc Lean, è la prima risposta alla conservazione della nostra integrità e sopravvivenza. Nasce come reazione alla frustrazione di una perdita, ma contemporaneamente maschera il dolore. Ecco, la rabbia aiuta a sfogarsi, ma non permette al dolore di essere espresso. Il dolore espresso è sofferenza, dispiacere, amarezza, angoscia, disperazione, tristezza, lacrime e parole. Provando rabbia nascondiamo il dolore, ma è lì che dobbiamo andare.NegazioneE’ il tentativo di isolare il dolore, di trovargli uno spazio tutto suo e di perdere le chiavi. Ecco, senza la consapevolezza di questo processo di difesa tutto automatico, il dolore diventa un fantasma. L’affetto viene negato e rimane solo il dato: ‘quella persona non c’è più, quel rapporto è finito’. Quando si nega l’affetto e quindi l’evento con la sua carica emotiva, ci impediamo di inviare messaggi all’io biologico di chiusura definitiva della relazione e ci allontaniamo da una risorsa fondamentale che è la capacità di reagire agli eventi.Svalorizzazione e AutosvalutazioneLa perdita va a inquinare il giudizio su di sé e la conseguente diminuzione di valore nei propri confronti e nelle proprie possibilità. E’ un vero e proprio attacco all’autostima: ’io non valgo, io non sono degno, io non me lo merito, etc.’IdealizzazioneL’idealizzazione, invece, è una manovra che permette di identificarsi con gli aspetti positivi dell’altro, di un vissuto o di una situazione, assumendoli come propri. E’ come sentirsi proprietari di una casa senza pagarne l’affitto. In apparenza c’è un tetto sopra la testa, ma si nasconde al mondo che ciò è falso. In pratica, si vive l’illusione di avere sotto quel tetto, una sorta di ‘completamento relazionale interiore’, tutto proprio.Dare la colpa agli altriLo scopo è quello di salvaguardare se stessi e il proprio mondo emotivo. L’obiettivo è attribuirne la colpa agli altri. Significa evitare di mettere in discussione o di compromettere il confronto, le ragioni e le qualità affettive di sé che non si riconoscono o non si accettano.Rimuginare sulla domanda infinitaRiguarda più cose. Da una parte ci si relaziona con gli altri cercando risposte, senza mai trovarle appaganti. Dall'altra cercando nella persona sbagliata qualcosa che appartiene a qualcun altro del passato.Ricapitolando, le difese legate alla perdita isolano dal dolore (rifiuto), proteggono l’ego (negazione), confondono il giudizio (isolamento), giocano con le tre carte (gioco di prestigio sulle identificazioni), riducono le emozioni e le responsabilità (Paura-Depressione- Tristezza), e dilatano il tempo del processo del lutto (venire a patti con la realtà). Insomma, niente di buono e questo niente di buono può durare mesi e anni. Una terra di nessuno nella quale si girovaga senza meta.L’altro processo non positivo di tutta questa complessa fase si attualizza nella negazione del processo di attuazione del distacco (Accettazione, Perdono e Rinascita).

Lorenzo Manfredini

'Soffrire va oltre l'esperienza psichica' di Lorenzo Manfredini

2018-12-07 09:59:40

La sofferenza per i malati, per un amore che finisce, per una persona che non c’è più, va oltre lo psichico e tocca il biologico. Nel vissuto dell’attaccamento e della separazione, la naturale divisione tra esperienza mentale e corporea, tra sé e l’altro, tra presenza e assenza, tocca le radici stesse della sopravvivenza individuale. Scardina le strategie di gestione dell’angoscia e del dolore, travolge gli schemi comportamentali acquisiti nell'infanzia, toglie ossigeno ai comportamenti adulti, imprigiona il futuro e blocca l’elaborazione e lo sviluppo di alternative.Ecco come ci sentiamo quando viviamo esperienze di separazione, lutto e dolore: viviamo dentro una gabbia, separati dai nostri processi vitali.Questa cosa ci tocca in profondità. Siamo senza arti emotivi, senza legami vitali, senza gli stimoli sani della sopravvivenza. Il nostro corpo biologico va in pezzi.Il dramma della perdita ha un prima, un durante e un dopo che ci fa sperimentare l’abbandono, la solitudine, la paura, il senso di colpa e la nostra vulnerabilità.La perdita di un legame mette in discussione la capacità di provvedere a sé stessi e sopravvivere. Per un periodo più o meno lungo si vaga nel vuoto, senza appigli e senza avere un compito da svolgere che abbia un significato vitale.Non ci sono risorse, sostegni, strategie di gratificazione che tengano o strategie di letture della realtà che giustifichino i fatti. Inizialmente prevale la preoccupazione, l’impotenza, l’inadeguatezza. In una parola, si sperimenta la ‘morte’.Una parte di noi non accetta la perdita e un’altra parte registra una sorta di impossibilità a sopravvivere: ‘come farò a continuare a vivere e a cavarmela?’Ogni legame ha un ché di connaturato con la sopravvivenza e ogni perdita è realmente vissuta come un ‘pericolo di vita’. In età adulta ovviamente ciò ha a che fare l’impossibilità di percepire la fiducia di ri-innamorarsi, di riuscire a cambiare lavoro, di lasciare le vecchie abitudini o di accettare le esperienze dolorose come fatti della vita.La risposta dell’organismo a tutto questo? La produzione di sintomi e segnali di pericolo!All'inizio, quando si ‘realizza’ la perdita, prevale un terremoto esistenziale con un senso di smarrimento e di mancanza, del tutto sano e naturale. Se non si è ‘preparati’, invece, si assiste a un processo di cronicizzazione fatto di due aspetti. Da una parte si attuano meccanismi di difesa per fuggire dal dolore, dall'altra, si attualizza la negazione del processo di accettazione del distacco.In pratica ci si confonde con i lacrimogeni (meccanismi di difesa) e si mette in quarantena il processo del distacco dall'oggetto d’amore e tutto ciò che lo riguarda (potenzialità, risorse, reazioni).Ogni perdita però va gestita e va elaborata. Se lo facciamo ci fa crescere. Se non lo facciamo, perdiamo la nostra anima e non siamo più nessuno.Se lo facciamo, grazie all'altro che non c’è più, scopriamo quella dimensione della nostra anima che ci fa dire: ‘io ci sono, sono qui, sono vivo, la vita va avanti!’Tutto ciò riguarda un processo che evolve per fasi. Le vedremo insieme.

1  
Lorenzo Manfredini

'Un modo di fare ‘colloquio’ in acqua' di Riccardo Manfredini

2018-12-06 14:43:42

In acqua sono riuscito a trovare una metafora, una palestra e un ambiente in cui verificare le basi del colloquio nella relazione d'aiuto: il setting, la preparazione, la disponibilità, la fiducia, l'ascolto passivo, l'ascolto attivo, l'accompagnamento. Lavorare sotto le parole per andare nel corpo. Una sensibilità davvero profonda per condividere un'esperienza con l'altro. Un modo di mettersi in discussione e restare in attesa e in ascolto. Tralascio pensieri e distrazioni. Mi predispongo alla relazione. Ti prendo le mani e creiamo un sistema duale. Il resto rimane fuori. Ti guardo, respiro e con un cenno del capo ti chiedo il permesso d'iniziare. Le parole non servono.Tu ti affidi all'acqua, io ti sostengo e ti avvicino a me. Sento il tuo peso, sento le piccole onde che lambiscono la pelle. Ti osservo galleggiare e ci diamo il tempo di trovare il nostro assetto. Ricerco la mia comodità, stabilità e serenità per permetterti di fare altrettanto.Chiudo gli occhi e ascolto. Provo a cogliere le variazioni. Il mio respiro e il tuo respiro diventano il nostro respiro. Le nostre individualità restano ben distinte ma s'incontrano. Anche se sei vigile lentamente ti rilassi. So che dovrò avere ancora più riguardo. Non mi riverso su di te e non mi distanzio. Mantengo l'equilibrio nel contatto.In base al tuo appoggio sulle mie braccia mi accorgo del tuo graduale abbandono. Mi concentro per essere con te, per stare con te.Ti tocco le mani e le braccia, ti lascio il tempo di accogliere. Poi procedo con leggere pressioni e carezze. Percepisco la tua consistenza, eventuali tensioni e le forme. Inizio a muoverti nello spazio. Comincio piano per poi aumentare. Le mie sono proposte e le tue reazioni mi aiutano a comprendere.Ti ascolto. Noto la fluidità e il grado di rilassamento in base alle risposte che mi rimanda il tuo corpo. Non conosco il tuo passato ma sono consapevole di come questo abbia modificato la tua postura, il tuo atteggiamento. Se mi accorgo che mi assecondi nel movimento cerco di distoglierti. Se sento rigidità rallento e sto nei tuoi confini. Provo a discernere tra ciò che credo giusto, piacevole, interessante per me da ciò che in realtà è buono per te e ti seguo. Non punto sulla forza o sulla prestazione o al bel movimento, sono con te, per te.Più riuscirò a rispettarti e più ti potrai lasciar andare.Puoi lasciare, puoi cambiare, puoi regredire mentre ti accompagno. Posso sembrare io a condurre ma in realtà sei tu che guidi. Mentre provo, sperimento, oso, tu mi lasci il campo entro cui agire. Se esco da questa dimensione diventa un mero esercizio di stile. Se resto centrato possiamo evolvere e andare lontano.​Grazie acqua... ma soprattutto grazie a te.

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36