Il tè è una delle bevande più consumate al mondo e forse anche quella che è stata e continua a essere sotto la lente di osservazione da parte della comunità scientifica. Il tè verde contiene una serie di composti chimici, tra cui le catechine, la caffeina, la teanina e le teaflavine che possono influire sulla funzione cerebrale e che potrebbero essere utili per il trattamento della degenerazione neuronale in futuro. Facciamo intanto il punto su ciò che è noto oggi.
Diversi studi epidemiologici hanno riscontrato effetti benefici del consumo di tè in generale e di tè verde sul danno neurodegenerativo, come la disfunzione cognitiva e la perdita di memoria, mentre in disturbi più specifici, gli studi hanno supportato gli effetti benefici del tè verde solo sulla malattia di Parkinson.
Sono stati condotti diversi studi sull'uomo, senza che nessuno di questi sia però riuscito a dimostrare in modo netto gli effetti favorevoli del tè sulle malattie neurodegenerative. Questa discrepanza secondo opinione comune dei diversi autori è dovuta a diversi fattori confondenti, tra cui il metodo utilizzato per quantificare il consumo, la temperatura delle bevande, il fumo di sigarette, il consumo di alcol e le differenze di fattori genetici e ambientali come razza, sesso, età e stile di vita.
Anche il microbiota intestinale e i polimorfismi genetici possono aver influenzato i risultati. Si stanno infatti studiando anche gli effetti dei polifenoli da tè verde sul microbiota e si è scoperto che inducono proliferazione di alcuni batteri benefici aumentando anche la produzione di gli acidi grassi a catena corta (e ciò potrebbe suggerire un contributo aggiuntivo al miglioramento della salute.
Integratori di acido folico con dosaggi superiori a quelli raccomandati e multivitaminci in quantità non coerenti con quelle indicate in confezione. Sono alcune delle denunce importanti, riguardanti nella fattispecie il mercato americano, che arrivano da Baltimora, dove si è appena concluso Nutrition 2019, l'incontro annuale dell'American Society for Nutrition.
nsieme a queste, indicazioni preziose su dieta e integrazione in gravidanza grazie a una serie di lavori presentati sottoforma di abstract.
In tema di acido folico, uno studio ha rilevato che la maggior parte degli integratori presenti sul mercato americano ne contiene più di quanto raccomandato come assunzione giornaliera, benché secondo gli autori, e questa forse è la nota più dolente, ci siano troppe indicazioni contrastanti sull'assunzione ottimale di acido folico e folati in gravidanza da parte della comunità scientifica.
Per quanto riguarda i multivitaminici, un’analisi di 24 prodotti, che rappresentano in Usa circa il 60% dei di quelli venduti nelle farmacie tra il 2015 e 2016, ha rivelato che la maggior parte conteneva quantità maggiori di micronutrienti rispetto a quelle dichiarate sull’etichetta, con particolare evidenza per la vitamina D, il cui contenuto mediamente eccedeva del 29% quanto indicato.
Proprio sul fronte vitamina D, si rafforza l’indicazione all’integrazione in caso di neonati con scorte insufficienti. In una recente sperimentazione clinica, infatti, neonati con bassi depositi di vitamina D a cui ne era stato somministrato un dosaggio elevato pari a 1.000 Ui/die, hanno non solo rapidamente ripristinato le scorte nonché guadagnato più massa magra già a sei mesi di età rispetto a quanti avevano ricevuto una quantità standard pari a 400 Ui/die al giorno, ma qualità e quantità della massa magra risultavano equivalenti ai neonati con valori ottimali di vitamina D.
Si ribadisce, poi, come una dieta salutare prima della gravidanza abbassi il rischio di preeclampsia. Da un’analisi di oltre 20 mila gravidanze, infatti, ricercatori di Harvard hanno potuto desumere come seguire prima del concepimento una dieta in linea con quanto previsto dalle raccomandazioni dell’ American heart association e dalle indicazioni Dash (Dietary approaches to stop hypertension) abbassi significativamente la probabilità di sviluppare preeclampsia.Infine, nuove evidenze su obesità e gravidanza. Uno studio su più di 25.000 donne ha rilevato che quelle con obesità più grave durante i nove mesi di gestazione guadagnavano meno peso, ma poi i figli erano più grossi rispetto a quelli di mamme con obesità meno grave, suggerendo una gestione differente dell’obesità materna in funzione della gravità. Lo studio conferma come sia difficile acquistare un peso raccomandato per donne obese gravide, cosa riuscita solo nel 20% dei casi
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