Mariana Zintu
Founder Starter
Api: insetti più importanti di quanto si pensi per l’ambiente Le api, secondo qualcuno, sono semplicemente dei piccoli insetti che producono miele; la loro importanza è molto più alta. Vediamo perché e che cosa succederebbe se non ci fossero. Quando parliamo di animali da produzione, produzione di qualsiasi alimento, non si pensa mai alle api. Pensiamo alle mucche, ai maiali, ai polli, magari alle pecore, ma al “più piccolo animale domestico del mondo” non ci pensa mai nessuno. Eppure le api, per importanza economica, sono il terzo animale da reddito più importante del mondo: seguono i bovini, che sono in prima posizione, e i suini, in seconda, ma superano i polli, che sono i quarti. Ma come è possibile che un insetto che, in gruppo, riesce a produrre 15 kg di miele all’anno sia più importante di animali che fanno uova e producono carne, peraltro una delle carni più consumate? Spesso ci fermiamo a pensare solamente al fatto che le api producano miele, quando in realtà non fanno solo questo. Se stamattina avete mangiato un frutto, è merito di un’ape. Se bevete un frullato, se mangiate una marmellata, se bevete un succo di frutta, è perché c’è stata un’ape. Le api sono importanti per l’impollinazione Avete mai fatto caso che i fiori degli alberi da frutto sono veramente molto belli da vedere? E profumati da annusare? Questa caratteristica non è casuale, ma è fatta proprio per attirare le api. Con “api” non si intende, infatti, solo l’apis mellifera, che è quella che produce il miele, ma oltre 20.000 specie di insetti simili che hanno una caratteristica comune: si nutrono del nettare dei fiori. Quello che fanno, tuttavia, quando vanno a prendere il nettare per poi metterlo nell’alveare e produrre il miele, non è l’unica cosa importante. Anche nelle piante esistono maschi e femmine, e i gameti maschili e femminili devono incontrarsi, in modo che il maschile fecondi quello femminile e diano origine ad un “figlio”, che è il seme, racchiuso in un involucro che è il frutto. Il seme, nelle condizioni ideali (nel terreno) darà origine ad un’altra pianta. I fiori rappresentano sia il gamete maschile che quello femminile, anche se sono fatti in modo che una pianta non possa autofecondarsi. Il pistillo, che è il centro del fiore, produce il gamete maschile che si chiama polline. Il gamete femminile, invece, si trova alla base del fiore. L’ape, entrando nel fiore, alla base, per prendere il nettare, si fa una bella ‘doccia’ di polline, perché mentre entra la sua peluria si impregna di questa sostanza; poi l’ape si sposta su un altro fiore, su un’altra pianta e rilascia il polline nell’altro fiore, aiutando la fecondazione della pianta. Insomma, se una pianta non avesse un fiore bello e profumato l’ape non lo noterebbe e non lo feconderebbe mai. La fecondazione, l’incontro tra il polline e il gamete femminile alla base del fiore, è l’evento che darà il via alla crescita del frutto: dunque se le api, che sono gli insetti che raccolgono il nettare (già le farfalle o le vespe lavorano in modo diverso), non ci fossero, non ci sarebbe la frutta. In uno scenario del genere andremmo al supermercato e non solo vedremmo lo scaffale del miele tristemente vuoto, ma anche quello della frutta e di alcuni tipi di verdura. Ed è da questo che si capisce quanto le api siano economicamente importanti per l’ambiente. E questo ci fa anche capire quanto stiamo perdendo: ci sono alcuni parassiti come la varroa che stanno rovinando le api, e per questo non possiamo fare nulla come cittadini, ma anche l’inquinamento sta drasticamente riducendo le popolazioni. E qui si, si può fare qualcosa, perché se tutti facciamo una piccola buona azione i risultati possono essere grandi ed importanti. Perché le api sono piccole, sembrano insignificanti, ma non ci rendiamo conto di quanto il loro lavoro sia importante nella nostra vita. Pensiamoci, perché la frase attribuita ad Einstein (anche se sembra non l’abbia pronunciata lui) “Se le api scomparissero, all’uomo non rimarrebbero che quattro anni di vita” non era proprio del tutto sbagliata.
Mariana Zintu
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Allarme cereali coltura In Sardegna : rischio estinzione per il grano sardo Continuando di questo passo in Sardegna non si coltiverà neppure un kg di grano. Da quattro anni il prezzo ha imboccato una lunga discesa costringendo i cerealicoltori a produrre in perdita. Dai 30 euro del 2014 ha cominciato a calare, 27 euro l’anno successivo per poi crollare a 21 nel 2016 (0,21 centesimi al kg) pagati al produttore che non bastano neppure a coprire i costi di produzione. Quest’anno il prezzo partito sempre da 21 euro sta scendendo anche di 6 euro (15-16 euro) per un peso specifico basso a causa delle continue piogge. Una calamità perché la lunga umidità e gli sbalzi di temperatura non hanno consentito uno sviluppo regolare del chicco ed hanno creato l’ambiente ideale per lo sviluppo dei parassiti. Questo ha abbassato la qualità e dato carta bianca ai trasformatori nella contrattazione. Negli ultimi 20 anni la cerealicoltura sarda ha perso i due terzi dei produttori e della superficie coltivata. Una annata come questa, in cui oltre ai mali atavici del settore (concorrenza sleale delle importazioni, mancanza di concorrenza) si somma una piovosità straordinaria, rischia di essere letale per il settore se non ci saranno interventi immediati, concreti e mirati, si rischia di chiudere il libro di un settore storico dell’agricoltura sarda. COSTI PRODUZIONE. Produrre un kg di grano costa, secondo un’indagine condotta dal professor Angelo Francarelli, 24 euro al quintale (24 centesimi al kg) con una resa di 27 quintali a ettaro. Insomma da tre anni i cerealicoltori producono in perdita. I costi di produzione sono più alti di quelli incassati dai cerealicoltori nella vendita. Da tre anni i cerealicoltori producono in perdita di 2- 3 euro a quintale che quest’anno, in alcuni, sale a 8 – 9 euro. Perdita, che a conti fatti, sale ulteriormente, perché le rese stanno scendendo: quest’anno si sta raccogliendo intorno ai 25 quintali ad ettaro anziché 27/30. Il grano ha una qualità inferiore: il peso specifico è passato da una media di 81 – 82 a 72 – 73. Insomma se dal 2015 ai cerealicoltori per pagarsi un caffè gli servivano 5 chilogrammi di grano, quest’anno dovranno aggiungerne altri 2 ed arrivare a 7 kg. Se nel 2014 il contadino guadagnava 30 euro da un quintale di grano, nel 1976 (42 anni fa) portava a casa 48 mila lire. Un valore che è addirittura calato nel confronto diretto, mentre tutti gli altri costi sono cresciuti a dismisura: per esempio il concime nel ’76 costava 5 mila lire oggi 45 euro, con un aumento del 1400%. PREZZO GRANO ANNO EURO/Q 1976 48mila lire 2014 30 euro 2017 21 euro 2018 21 – 15 euro DAL CAMPO ALLA TAVOLA. Stesse differenza di percentuali che ritroviamo tra il costo del grano in campo e in tavola con la pasta o il pane. Da una indagine Coldiretti, nel passaggio dal campo alla pasta il prezzo aumenta di circa il 500%, mentre dal grano al pane addirittura del 1400%. Questo sta a significare che lungo la filiera c’è qualcuno che perde e qualche altro che intasca lauti compensi. Chi perde, come al solito, è chi lavora la terra. Dove vanno a finire invece questi lauti margini di incasso? RISCHIO ESTINZIONE CEREALICOLTORE. Questo sistema sta lasciando tante vittime lungo il cammino e rischia, in annate come questa, di accelerare il processo che sta portando i cerealicoltori a lasciare le terre incolte. Da una indagine di Laore risulta che nel quindicennio che va dal 2000 al 2015 i contadini che coltivavano grano si sono dimezzati: sono passati da 12.395 nel 2000 a 6.190 nel 2015, con un – 50,1%, mentre negli ultimi 3 anni ne abbiamo perso un ulteriore 10 – 12%. CEREALICOLTORI ANNO NUMERO 2000 12.395 2010 6.190 2017 - 10 / - 12% ABBANDONO DELLA TERRA. Ma se parliamo delle superfici coltivate l’esodo dal grano non cambia. Anzi forse negli ultimi anni è cresciuto anche di più. La Sardegna tra la fine dell’800 e inizi del ‘900 era la seconda regione dopo la Sicilia in cui si coltivava più frumento duro in Italia: 158.000ettari su 1,29 milioni totali (dato Laore).
Mariana Zintu
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