Una Storia veneta. L'avventura di Dino Boscarato

Founder Junior

3-Una storia veneta. Gli inizi

2020-02-07 23:11:09

Qui Dino racconta gli inizi, la sua infanzia a San Vito di Cadore e le prime esperienze nella ristorazione.

Sono nato a Santa Lucia di Piave e quando avevo due anni la mia famiglia si è trasferita in Cadore, dove sono cresciuto e mi sono formato da vero montanaro, nel senso che là i bambini lavoravano quando non erano a scuola. Così io, verso i sette anni, già pelavo le patate nella cucina del nostro albergo a San Vito di Cadore.

Fra i primi ricordi che riemergono dall’infanzia c’è sicuramente la festa che si faceva quando si uccidevano i maiali, occasione di gran mangiate di costicine e di salame fresco con la polenta o con le patate. Le nostre patate dovrei dire perché le coltivavamo noi ed erano particolarmente buone. Farina infatti non ce n’era, e quello che si poteva trovare in giro erano patate e basta; io ne ho mangiate tante, e non ho mai dimenticato la frase di un prete, direttore del collegio di Borca di Cadore, il Pio X, che soleva dire: “Ragazzi, mangiate tante patate, così diventerete intelligenti!”. Io ne ho mangiate tante, ma non so dire quanto intelligente sono diventato.

Scherzi a parte, le patate del Cadore erano davvero buone e io me ne facevo delle gran scorpacciate perché anche solo con un po’ di sale e, se era possibile, un po’ di burro (perché anche di olio ce n’era pochissimo) mi toglievo la fame. Ne mangiavo pure quando tornavo a casa da scuola, alle cinque del pomeriggio.

Ma tornando ai fatti legati alla mia infanzia, oltre al lavoro in cucina, ricordo con molta chiarezza le posate di alpaca. L’albergo non aveva naturalmente l’alpacca argentata, come si usa adesso, o l’acciaio, ma le posate di alpacca, che dovevano essere pulite ogni giorno con farina di pomice e con dei tappi che servivano proprio a far aderire la farina alle posate in modo da pulirle bene. Uno dei crucci della mia infanzia era proprio questo lavoro che mi affidavano, perché invece di andare a divertirmi con i miei amici dovevo stare in casa a pulire le posate di alpacca. Lo facevo assieme a una cameriera, una cavallona che mi aveva preso in simpatia e alla quale mi divertivo molto a sciogliere il nastro del grembiulino ogni volta che mi passava vicino.

Ma piangevo, anche.

Credo però sia il caso di raccontare un po’ come si svolgeva la vita in montagna quando ero piccolo. La mia famiglia aveva appunto una piccola pensione-albergo di circa venti camere, con un bar che lavorava molto con la clientela locale, naturalmente: era gente che beveva grappa a bicchierini abbondanti e il problema dell’alcolismo, infatti, sebbene non molto noto, purtroppo esisteva.

Durante l’anno andavamo a scuola: c’era una scuola privata a Cortina, l’Istituto Antonelli, dove ho fatto tutti i corsi fino quasi alla licenza liceale. Per la licenza, gli ultimi due anni, ho studiato invece con i padri Cavanis, che dirigevano l’Istituto Pio X, vicino a Borca di Cadore. Lì ho conosciuto un certo padre Dalla Brigida, amico di Alcide De Gasperi, davvero molto bravo, che ci insegnava tutte le materie eccetto religione (era molto liberale in questo!). Padre Dalla Brigida mi ha dato davvero molto, ma soprattutto mi ha insegnato a ragionare. È sicuramente la persona che ha sviluppato il mio modo di procedere: poche cose a memoria (infatti mi dimentico spesso le cose), e avanti invece per ragionamento e per costruzione. È stato lui a portarmi infine all’esame di maturità, un esame molto duro, affrontato da privatista, al quale ci siamo presentati in una quarantina, e tra luglio e ottobre (due appelli) siamo stati promossi solo in sette. Io ero tra quelli di ottobre.

I miei genitori avevano stabilito che io dovessi poi diventare l’ingegnere della famiglia, perché tutte le famiglie che non avevano una grande tradizione industriale o commerciale puntavano ad avere un laureato o un diplomato. Toni era enotecnico, Tarcisio geometra, e io dovevo diventare l’ingegnere.

Ma le cose sono andate diversamente, come vedremo tra poco.

Il tempo libero che ci restava, diversamente da oggi, che si deve per forza dedicarlo ai divertimenti e allo svago, e anzi “bisogna” darsi al divertimento e non si devono caricare di troppo lavoro i ragazzi a casa altrimenti si stressano, noi invece, dicevo, lo impiegavamo nel lavoro. C’era il lavoro sui campi, non grandi cose, ma bisognava raccogliere le patate, zappare i filari, oppure raccogliere la legna nel bosco... Tutte cose che abbiamo fatto per diverso tempo, e, nonostante ci costassero un po’ di sacrificio, ci davano anche grande soddisfazione.

Determinante per la mia partecipazione al lavoro è stata la morte del papà, che è mancato nel 1944, quando io avevo 15 anni. Due anni dopo, infatti, ho dovuto cominciare a gestire l’albergo, perché ne avevamo due: uno era in mano ai miei fratelli, Toni e Tarcisio, e nell’altro c’era la mamma in cucina con la cuoca Erminia, mentre io dovevo occuparmi del rapporto con la clientela, della contabilità e dell’organizzazione generale. Il lavoro in albergo mi piaceva molto, nonostante la mia giovane età. Alla sera poi ricordo che si usciva a fare le serenate alle ragazze dell’albergo, tutto sempre senza “malizia”, ma solo per far passare il tempo, perché a quell’epoca non c’era la televisione.

Il primo anno di gestione io mi preoccupavo anche di organizzare le serate agli ospiti, facendo in modo che non si annoiassero, specialmente nei giorni di pioggia quando in montagna non c’è possibilità di svago alcuna. Per riempire le lunghe ore serali si facevano giochi di carte, giochi di società, si raccontavano barzellette... Era tutta un’organizzazione di quel genere, davvero molto semplice quindi. Così ho finito per rinunciare all’università e dedicarmi alla mia passione sperando in futuro di avere un locale tutto per me.

A quell’epoca facevo anche parte dell’associazione sportiva “Caprioli” di San Vito, e ricordo che ho anche portato la fiaccola olimpica nel 1956 per due chilometri passando davanti all’albergo, in staffetta. Quell’anno l’albergo, malgrado le promesse delle Olimpiadi invernali di Cortina, aveva avuto zero prenotazioni. Noi ragazzi del gruppo sportivo avevamo fondato un Bob Club, perché la FISI (Federazione Italiana Sport Invernali) stanziava dei fondi per gruppi che volessero fondarne uno (erano gli anni in cui era in auge il campione del mondo, mio amico, il “rosso volante” Eugenio Monti). Siamo quindi andati a iscriverci, gli istruttori della FISI ci hanno accettato e ci hanno dotato dei bob. Io però non volevo correre, perché avevo altri impegni, sennonché quelli di noi che non avevano ancora compiuto 18 anni dovevano farsi rilasciare l’autorizzazione dalle famiglie; ma le famiglie non ce l’hanno voluta fare, perché solo un anno prima uno di Pieve era morto con il bob. Allora due o tre di noi, tra cui io, che avevano già compiuto diciotto anni, hanno dovuto sostituire i ragazzi che avevano aderito agli equipaggi.

Così, scherzosamente, abbiamo intitolato il Bob Club “La mama no me lassa”.

(continua...)

Le foto:

In copertina, scultura in legno riproducente l'effigie di Dino, regalata dai dipendenti in occasione dei 40 anni di attività.

La famiglia di Dino, il più piccolo a sinistra. (tratta da Mensa Magazine)

Lo chalet al Lago di San Vito di Cadore

Una foto dei casunziei ampezzani a base di patata e rapa rossa (da questo link)