Passi Sparsi | Esercizi di Empatia in narrativa

Libri & Scrittura

Passi Sparsi Milano #01

2018-12-24 09:32:18

Inizia un nuovo progetto Passi Sparsi, insieme ad Arianna Damanti che mi ha passato splendide fotografie e musiche di accompagnamento.

Passi Sparsi | Milano #01

Milano sa piallarmi l’anima.

Mi basta fare una passeggiata per le vie del centro e osservare la mole di roba - soprattutto umana - per risolvere l'afonia del cuore.


Il punto è che faccio ogni volta la stessa passeggiata, che si snoda sempre in Brera, perché è lì che da ragazzo ho sparso la maggior parte dei miei passi, è lì che posso raggranellare sogni e pezzi di anime sognanti.


Un articolo che ho letto qualche giorno fa parlava dei vecchi, di come tendono a fare le stesse cose ogni giorno, soprattutto la stessa passeggiata, perché in pratica cercano conferme, sicurezze, pochi stimoli, poca roba, ché non saprebbero gestirla altrimenti. E la cosa è buffa, se la fai a quarantaquattro anni, la stessa passeggiata, quasi tutti i giorni, quasi sempre identica.


Ad ogni modo non credo valga per me, questa storia delle certezze, perché nel mio tragitto le certezze sono solo architetture, ma gli attori cambiano, vanno e vengono, certi giorni non sono gli stessi, poi tornano tutti e sembrano nuovi ogni volta.


Irma non tornerà, invece, ed è come dover ricostruire una mappa nuova, tracciare altri percorsi, scoprire di essere immobilizzato da infinite possibilità, tutte senza di lei.
Dicono che la fine di una storia è come un lutto, che serve un’elaborazione per venirne fuori, che ognuno ha i suoi tempi, e compagnia bella.
Lasciarsi andare, quando ci si ama, è l’atto d’amore estremo, dopo averle provate tutte per essere felici insieme. È una sorta di suicidio, un lutto denso, la cui elaborazione è più complicata, perché senza le rabbie, le delusioni, i tradimenti d’intesa che bruciano, si tende a tornare sui propri passi, a ricordare solo il bello che c’è stato, a vivere il vuoto. Almeno è così per me.


Sono già passati trentasei giorni e stiamo tenendo duro.


All’angolo Via Fiori Chiari, il carrettino dell’inutile è solo un alibi di quell’uomo per regalare sorrisi alla gente, ma fa parte del piano architettonico dei miei passi e non nego che mi rassicuri.

Arrivo alla grande bacheca dell’Accademia, il solito casino di fogli appesi, di opportunità offerte a un vento che non c’è mai, e noto che il mio disegno a china anche stavolta è stato preso da qualcuno.


Cosa darei per sapere chi se li porta via, chi ha preso tutti i precedenti cinquantasette, per scoprire se è la stessa persona o se ogni volta è una diversa.

Magari sa chi sono, aspetta ogni giorno il mio arrivo, mi osserva da lontano appendere il foglio con un’unica puntina da disegno a tre punte, poi si fa avanti verso la bacheca solo quando giro i tacchi e mi allontano, prende il foglio e se lo porta via.


Forse ho un unico spettatore, che colleziona i miei disegni, frammenti inutili in mezzo a cose utili, o mezze utili, uno che portandoli via li rende suoi a tutti gli effetti, impedendo che altri li vedano.


Quella volta che sono rimasto in zona per capire la dinamica della sparizione, ho passeggiato finto distratto per un’ora, attento a chi si fermava lì davanti, finché mi è venuta voglia di un caffè, sono entrato in un bar, il tempo di ordinarlo, di berlo, di pagarlo, e al mio ritorno il quadro non c’era più. Nemmeno la puntina.
Una botta, una di quelle che un po’ frustano il cuore, che da un lato ti danno la sensazione di furto di roba tua, dall’altro puoi decidere se trasformare questa sensazione in riconoscimento, in conferma di piacere a qualcuno, fosse anche l'unico. Credo sia il narcisismo dell’artista a farmi fare questo, quando invece dovrei dedicarmi a sbarcare meglio il lunario.


Ad ogni modo sono le 17.30 e, anche oggi, appendo in bacheca la mia nuova opera: la TARTALISCIA, una tartaruga senza rughe, che sembra uscita da un trattamento al botulino, con le mie iniziali in piccolo, nell’angolo superiore destro. Lo posiziono piuttosto nascosto, coperto da altri fogli, in modo che faccia capolino leggermente. Ci ficco dentro la puntina, che entrando nel compensato mi dà quella splendida sensazione di perfezione, la spingo bene, fino in fondo, per complicare l’operazione al mio estimatore e costringerlo a lavorarci un po’.
Decido di uscire dall’Accademia e poi rientrare, mischiato alla ressa di studenti, sfruttando il colonnato per nascondermi il più possibile.


Osservo i capannelli di ragazzi, mi vedo in mezzo a loro ventiquattro anni fa, con la mia sigaretta sempre accesa, a cercare di darmi un tono distaccato-figo e mi si apre un mondo di ricordi, di odori colorati, di calori umani.


A un certo punto la vedo.


Entra nel cortile, coi suoi capelli biondi che sembrano un pezzo di doratura per cornici antiche, una foglia d’oro non fissata bene, che si muove ad ogni passo. La osservo da lontano, camminare fiera verso la bacheca, fermarsi davanti alla babilonia di fogli appesi, toccarne parecchi, spostandone alcuni leggermente per scoprire cosa c’è sotto.
Quando lo trova, sorride nell’angolo destro della bocca, fruga la borsa, ne estrae un piccolo coltellino con il manico rosso, traffica un po’ per staccare la puntina, prende il foglio con le due mani, lo avvicina al naso per sentire qualcosa che cerca solo lei, socchiude gli occhi mentre inspira, lo mette in una cartellina rigida, si dà un’occhiata in giro, e se ne va.


Era la mia Irma.


Francesco, artista, anni 44

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Testo di Sergio Omassi, fotografie e musiche di Arianna Damanti