Andrea Michelotti

Founder Senior

Credo alla profezia di un Grande Vecchio della letteratura americana com’è stato Philip Roth, che disse poco prima di morire che la lettura dei romanzi, nel giro di una generazione, sarebbe diventata qualcosa di simile a un piccolo culto tenuto in vita da una cerchia di devoti “probabilmente più di quelli che adesso leggono la poesia latina, ma comunque in quell’ordine di grandezza”. Ho la sensazione che finirà così ma non è detto che sia un male. La società che ha costituito la “letteratura” in quanto oggetto di un sapere, concetto identitario e pedagogico, luogo del valore e fulcro del sistema educativo, non esiste più, e rimpiangerla non è un atteggiamento costruttivo in sé. Al giorno d’oggi la complessità non è più categoria fondamentale del nostro paradigma cognitivo. La conoscenza passa dalla velocità e dall’economia di mezzi, dal riconoscimento immediato fra codici, simboli e fenomeni contigui. Non è un giudizio di valore, ma solo vedere la mutazione. È un cambiamento che influenza ogni ambito della vita pubblica, culturale e sociale. Il collegamento della cultura alta (diciamo accademica) sul piano del consenso sociale è scomparso, almeno per ciò che riguarda la cultura umanistica, mentre il campo sociale e quello scientifico riescono a instaurare un rapporto stabile con le aree culturali destinate alla produzione del consenso (sono ad esempio le centinaia di articoli che appaiono sui giornali a dirci che è stato trovato il gene che ci fa innamorare, ecc.), il campo umanistico ha smarrito il contatto con i nuovi veicoli preposti alla sua diffusione sul medesimo piano. Persa definitivamente la ragione sociale, il letterario (passatemi un termine che generalizzi una molteplicità di soggetti) si è ritrovato così bloccato in una torre d’avorio che, separato da quello che Gramsci avrebbe chiamato il suo inveramento sul piano del consenso, finisce proprio per tale ragione a dubitare di sé, a riconoscersi, vale a dire, come inutile, falso, marginale. Troppo mutata la società, il pubblico, il sistema della formazione culturale, perché il vecchio assetto si mantenga. Mutato per ragioni storiche come risultante di una nuova configurazione dei rapporti di forza in cui perdono prestigio le vecchie agenzie (la scuola, l’università, la cultura “alta”) e il mercato si afferma sempre di più come ragione unificante. Che il mercato sia nemico della letteratura non di puro svago è quanto di più ovvio e legittimo: a cosa le serve? Perché dovrebbe alimentarla, incoraggiarla, pagarla? La narrazione profonda e impegnata, nonché impegnativa, è oggi scoraggiata, malvista, quando invece tutti richiedono storie motivazionali, adesione, identificazione, empatia, sentimentalismo, super-eroismi. La narrazione distingue e dubita, e ne gode. Il populismo mercantile unisce e cerca lo scontro: noi contro loro, è tutta una cricca, chi l’ha detto che quello è meglio di me?, purezza e verità nel sentimentale e nel naturale assoluti e non indagabili poiché perfetti e sinceri a prescindere. La necessità della letteratura è nelle mani di chi la sente necessaria, tutto qui. E nel fare comunità intorno ai suoi valori; una comunità difficile, articolata, paradossale, ma molto più reale, credo, degli aggregati desideranti e paranoici che ci si parano davanti con la stessa irresistibile nocività dei cambiamenti climatici.

Andrea Michelotti

Founder Senior

"Consigli a un giovane scrittore" CamRecensione

2019-09-03 16:43:23

Prima recensione per Cam.tv, i mezzi tecnici non sono potenti ma mi auguro che la sostanza possa, almeno in parte, compensare la forma. Grazie!

Andrea Michelotti

Founder Senior

Ha senso scrivere nel ventunesimo secolo? Le grandi piattaforme digitali Google, Facebook e Amazon disegnano il nostro profilo di consumatori mentre noi consumiamo. Attingono direttamente dal nostro agire i dati che gli algoritmi utilizzeranno per incanalare le nostre prossime azioni. Ci autorizzano, in forza di un potere tanto più grande quanto più anonimo e più meccanico, a essere ciò che siamo, a volere tutto ciò che vogliamo, ci inducono ad attribuire autorevolezza a chi la pensa come noi più che a cambiare pensiero davanti a chi si dimostra autorevole. Consigliandoci (o, meglio, tramite l’indicizzazione somministrandoci) quanto più ci somiglia ci condannano a ripetere all’infinito le scelte che abbiamo fatto, come tante marionette algoritmiche mosse da lunghe stringhe di numeri e “costrette” a rifare sempre gli stessi passi. La società che ha costituito la “letteratura” in quanto oggetto di un sapere, luogo del valore e fulcro del sistema educativo, non esiste più. Capire cosa possiamo fare nell’economia del capitalismo cognitivo, dove la produzione e la gestione delle conoscenze – scienza, ricerca, cultura, arte, letteratura, insegnamento – entrano in una logica di scambio, profitto, competizione e accumulazione del capitale cognitivo globale è una priorità. La letteratura è portatrice di dubbio, lacerazione, analisi e critica della vita che mette in scena per il semplice atto di osservarla e ri-scriverla attraverso uno sguardo altro. Nulla di più incompatibile con il sistema socio-economico in cui viviamo, quello del mercato trionfante e del consumo compulsivo, che non ha alcuna intenzione di essere interpretato. Operazioni e routines della nostra vita quotidiana devono essere semplicemente processate, eseguite in modo rapido ed efficiente, possibilmente in uno stato di incoscienza o con introiezione meccanica dei principi su cui si basano. Ormai siamo tanto ossessionati dalle valutazioni (a scuola, sul lavoro, nella Quality Assurance, sui social o su Tripadvisor), quanto lontani dalla coscienza critica del giudizio, che è tutt’altra cosa. Ed è qui quel che c’è ancora da fare: inceppare gli algoritmi, rompere gli automatismi, aggredire il senso comune, costringere un paio di studenti a farsi domande nuove, dimostrare nei fatti e negli spazi istituzionali di cui possiamo disporre (aule, recensioni, presentazioni, festival o premi letterari, ecc.) che si può ancora affermare una certa idea di letteratura, che esistono libri belli e libri brutti, che uno scrittore si riconosce dalla voce e anche da cose molto tecniche come la scelta delle parole, il ritmo, un giro di frase, una metafora, la guerra senza quartiere contro il cliché. Quindi la risposta è: si, purché ci sia un approccio sincero e radicale, che non si componga un compitino finalizzato solo a piacere al prossimo. Non importa quale sia il tema o il genere, importante è che contenga una “visione” personale onesta e perciò stesso critica e costruttiva. Questa è la mia opinione. Che idea avete voi? Quali esperienze di questa utilità della letteratura? Se ho stimolato in voi una piccola riflessione questa è già una conferma. Grazie.

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