Una Storia veneta. L'avventura di Dino Boscarato

Founder Junior

5 - Una storia veneta. La ricostruzione in montagna, dopo la guerra.

2020-02-20 13:40:35

«San Vigilio, diciamo la verità, era una grossa possibilità per chi avesse fantasia e ambizione, e io credo di averle avute tutt’e due»: i tempi dopo la guerra, la ricostruzione. Si racconta di un pranzo improvvisato con i clienti amici in cucina, mossi da una grande passione e divertimento!

Altri fatti che ricordo di quel periodo sono quando i partigiani hanno fatto saltare un traliccio vicino all’albergo; oppure quando un tedesco ubriaco ha sparato in bar da noi, lasciando il buco della pallottola sul soffitto. E poi tanti altri, che oggi potremmo per certi versi considerare allucinanti, ma per altri anche ridicoli.

Infine, sempre in quel periodo, ricordo che la mamma allevava quattro o cinque maiali con i quali facevamo i salumi, e di cui mangiavamo le carni durante l’anno. Per l’estate si preparavano infatti carni affumicate e secche, che si conservavano a lungo. Principalmente facevamo però dei buonissimi salami. Per allevare i maiali usavamo le patate, quelle piccole che adesso chiamano novelle e vendono più care; allora, invece, erano semplicemente le patate piccole e le davamo ai maiali. Inoltre andavamo a prendere per loro, alla latteria di San Vito, a un chilometro e mezzo dall’albergo, il siero, cioè quella parte del latte che restava dopo avere fatto burro, formaggio e ricotta. Ci andavamo io e Tarcisio con il carretto.

Per accudire i maiali, la mamma si doveva alzare ogni mattina alle cinque perché poi bisognava aprire il bar del ristorante. Un lavoro veramente estenuante, che ha dato però, almeno mi sembra, dei buoni risultati alla fine.

 

Nel 1957 sono andato a dirigere l’albergo che la mia famiglia aveva dal 1950 a San Vigilio di Marebbe, in Alto Adige, abbandonato da mio fratello Tarcisio che non si trovava bene nei panni del gestore-albergatore. Per me è stato un periodo divertente e proficuo perché ho fatto pratica in un ambiente di alto livello turistico, e ne posso parlare come di una “stagione” in cui ho potuto irrobustire la mia professionalità. Lì ho messo in pratica lo stile familiare (anche se della mia famiglia c’ero io solo) e il coinvolgimento di clienti-amici, che è il massimo nel rapporto albergatore-turista: diventare amici, voglio dire.

Il problema della vita in montagna, si sa, in estate come in inverno, è quello che le sere non passano mai, e questo stimola l’inventiva di chi si dedica con coscienza all’ospitalità, che sarà pure un’industria, come si dice, ma richiede anche tanto artigianato, dico io, e altrettanta dedizione. Il che significa lavorare duro, senza risparmiarsi, perché i risultati nessuno te li regala. Un buon albergatore deve perciò sempre creare qualcosa di attraente per scacciare la noia che a volte insidia i clienti e per tenere insieme tutta quella gente che condivide l’amore per lo splendido ambiente della montagna. Per me è stato così, allora, ma è una regola che vale anche oggi, ovunque ci siano delle risorse da far fruttare.

San Vigilio, diciamo la verità, era una grossa possibilità per chi avesse fantasia e ambizione, e io credo di averle avute tutt’e due: così ho cominciato a organizzare molte serate perché le ritenevo utili e necessarie a prolungare l’atmosfera così tipica della vacanza, che è un tempo fuori dall’ordinario. Erano iniziative destinate ai miei clienti, pensate per loro al principio, ma poi loro ne hanno parlato in paese e così un po’ alla volta sono stati coinvolti anche gli altri turisti.

Nei primi tempi, devo dirlo, non ho trovato molta simpatia nell’ambiente alberghiero, forse perché ero l’unico ristoratore italiano in mezzo a un esercito di tedeschi. Anzi, direi che i rapporti con gli altri albergatori sono stati per qualche tempo un po’ burrascosi. Però ben presto il ghiaccio si è sciolto, come si dice. E credo che il momento della svolta sia stato quando sono diventato amico dei maestri di sci, che da quelle parti contano moltissimo.

Ricordo fra gli altri Hans Herlacher, Eric Harslunger, Schlechener dell’Hotel Pots­dam. Tutti loro, a volte da soli, a volte in combriccola, hanno cominciato a venire a quelle serate e così facendo hanno fatto da apripista agli altri. Serate che nascevano quasi per caso, con molta spontaneità e con mezzi ridotti: una chitarra, tante canzoni e canti di montagna. E gran bevute fino alle due di notte, a volte fino alle quattro.

Il mio alberghetto aveva una quarantina di letti, ma d’estate, e succedeva sempre a ferragosto, diventavano sessanta con le aggiunte che dovevamo fare per non deludere quelli che volevano alloggiare da noi. Così che c’era una vera folla alle nostre serate. Mi ricordo un particolare: quando la festa si prolungava oltre la mezzanotte, la musica… metteva appetito. Giovani e “maturi” cominciavano a sentire fame (e anch’io con loro).

Consapevole dei miei doveri, organizzavo uno spuntino, alla mia maniera. Poiché a quell’ora di notte la cuoca era smontata dal servizio, mettevo insieme un gruppetto fra clienti e ospiti esterni, tutta gente che, con me in testa, sapeva affrontare in qualche modo i fornelli. Un’avventura, a dir poco. Io avevo cominciato proprio lì a San Vigilio a cimentarmi in cucina grazie alla pazienza della cuoca, una signora triestina. Qualche sciocchezzuola l’ho anche realizzata. Ma non era il mio destino, la cucina. Insomma, stavo dicendo di quando entravamo in cucina noi “estranei”: eravamo una specie di commando gastronomico che prendeva rumorosamente possesso della cucina dell’hotel e in allegra confusione ci preparavamo pastasciutte, salsicce arrosto, la polenta!, e ci si divertiva da matti.

E poi una curiosità: quelle esperienze giocose mi sono tornate utili un’estate, quando la mia cuoca si è ammalata per due giorni. Messo in affanno, ho cercato subito un sostituto ma è stato impossibile reperirlo in zona, e in tempo per evitare un naufragio. Che dovevo fare? Non certo abbandonare i miei clienti!

Così ho pensato di chiedere aiuto proprio a chi avevo vicino, cioè quegli amici di musica e di bevute notturne, milanesi e genovesi per lo più. E loro mi hanno risposto subito sì. Così ci siamo improvvisati cuochi da ristorante, riuscendo a dar da mangiare a più di sessanta persone. Per carità, niente di superlativo, solo piatti semplici, senza pretese, che però ci hanno dato un di­screto successo, oltre a qualche inevitabile scontento. Ma il risultato vero – da ricordare – è stato quello di aver lavorato in sintonia fra albergatore e clienti, tutti insieme, con piglio familiare, addirittura con autentico divertimento.

Una volta la mamma (che veniva su a trovarmi), si è alzata prestissimo perché la sua corriera partiva alle sei e mi ha trovato lì davanti all’albergo che giocavo a calcetto con i clienti. Io dicevo che facevo tutto per divertire i clienti, ma la verità è che mi divertivo anch’io!

 

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