CARI UBBRIACHI DEI MIEI TEMPI, erano anche loro un'istituzione cittadina, un abbellimento della vecchia Milano. Non c'era che fare una passeggiata nei paraggi di via Canonica, Sarpi, Nicolini, la zona in cui abitavo, per aver il piacere di imbattersi nelle più divertenti macchiette di "cioccatée" le quali dondolando qua e là erano sempre seguiti da gruppi di monelli che le gridando "Gaìna! Gaìna". Capitava di vedere questi pittoreschi personaggi fermare i passanti con la tipica voce degli ubbriachi per raccontare la loro vita, dei dispiaceri familiari, costringendoli ad ascoltare le loro interminabili disavventure e lamentele, fin quando alla fine non arrivava un Ghisa a por fine al dialogo e mandare a casa questo personaggio insofferente alla disciplina. Carlo Dossi del movimento letterario "la Scapigliatura Milanese", distingueva tre stadi dell'ubriachezza: la cirla (allegroccia), la virla (barcollina), la patarlaca (imbriacatura completa), quando i bevitori cominciano a non reggersi sulle gambe, quando vedono il soffitto camminare e quando si raddoppiano le visioni. Doveva intedersene il Dossi che aveva visto più volte il grande Giuseppe Rovani, che era quel che si diceva un buon bicchiere, quasi sempre "ciocc me una vaca", passar la notte sotto i tavoli dell'Osteria della Polpetta, al Monforte, ritrovo abituale degli Scapigliati milanesi. Un altro scapigliato l'Iginio Tarchetti, scriveva: "Ho bevuto vino e sento che colui che ha vuotato dieci bicchieri di vino vale dieci uomini. Io vorrei sapere cos'è il vino e donde procede questa elevazione morale che segue ad una libagione". Bella domanda.