Una Storia veneta. L'avventura di Dino Boscarato

Founder Junior

4 - Una storia veneta. Vita in montagna

2020-02-12 19:10:25

Continua la narrazione con alcuni episodi della giovinezza in montagna, nel Cadore, e i primi incontri con il mondo dell'accoglienza alberghiera, e un fantomatico salvataggio di materassi al termine della guerra. Nella foto Dino Boscarato con Mara de Lucia e un giovane Lino Toffolo.

Continua la pubblicazione di "Una Storia Veneta. L'avventura di Dino Boscarato e della trattoria dall'Amelia di Mestre."

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Ma anche altri sono gli aneddoti e i piccoli avvenimenti di quegli anni. Ricordo ad esempio una cuoca, l’Erminia, di 55 o 60 anni, molto pesante, forse 110 chili, un baule, con una faccia che sembrava quella dei porcellini, ma simpaticissima, e che mi voleva un bene da matti, anzi mi sbaciucchiava in modo anche esagerato e questo non mi piaceva; ma siccome mi faceva dei piattini piuttosto gustosi lasciavo correre, anche se poi ogni volta andavo a lavarmi la faccia. L’Erminia aveva purtroppo un difetto: beveva. Una volta arrivo tranquillo in cucina da dietro, le dico “Ciao Erminia” e le do una pacchetta sulla spalla. Lei aveva bevuto, era in equilibro precario, praticamente ubriaca, ed è caduta con le mani sulla stufa. Ho sentito friggere le mani. Si è voltata furibonda e mi ha tirato un coltello che se mi prendeva non sarei certo qui a raccontarvi la storia.

Per quanto riguarda l’aspetto “culinario”, è ovvio che in periodo di guerra si cucinavano tante patate, tanta pasta, tanti piatti con formaggi, uova, latte; e mi ricordo che la trattoria aveva molto successo, perché in quel periodo c’era la tessera annonaria.

Un piatto che alla mamma veniva particolarmente bene erano le “cotolette”, delle tettine di vacca, che riusciva ad acquistare ed erano qualcosa di delizioso. Lei infatti riusciva a “recuperare” tutte quelle cose che oggi vengono rifiutate, ma che se fatte bene sono delle vere e proprie “riscoperte”. Come abbiamo riscoperto proprio la tettina qui all’Amelia quando facciamo i bolliti.

Come già detto, io lavoravo durante i mesi di luglio e agosto, e in parte a giugno e settembre. Il resto dell’anno io e i miei fratelli andavamo a scuola, ma curavamo anche i lavori di sistemazione dell’albergo, lavori anche pesanti. Ad esempio, dove coltivavamo specialmente le famose e favolose patate, che servivano anche per allevare i maiali; e si faceva la legna, perché il riscaldamento a quei tempi non era a gasolio ma con le stufe, in cucina e in qualche camera, per affrontare le stagioni fredde. Gli addetti ai lavori manuali eravamo io e Tarcisio: mi ricordo che una volta abbiamo fatto ben quaranta carri di legna perché il Comune aveva affidato a noi dei tratti di bosco da tenere puliti, dovevamo cioè eliminare le piante che davano fastidio, che facevano male al bosco e che quindi andavano tagliate. C’era poi da fare la raccolta dei rami grossi, quelli più grossi ovviamente, e la legna ci doveva bastare per tutto l’inverno, perché era una spesa piuttosto grossa quella che dovevamo fare per tenere caldo l’albergo. Di certo i problemi di “linea”, che adesso ho di continuo, a quell’epoca non c’erano...

Partivamo alle 5-6 del mattino per andare nel bosco a tagliare, si cominciava dopo un’ora di salita e preparavamo i carri di legna, che venivano ammassati nelle stradine di fondovalle, talvolta con notevoli peripezie. Quello che mi ricordo è che alle 8-9 del mattino mangiavamo delle “sberle” di pane con una fettina piccolissima di mortadella!

Durante il periodo della guerra, tornando indietro nel tempo di un paio di anni, si sono verificati alcuni fatti abbastanza importanti. San Vito era diventato, come lo chiamavano i tedeschi, il “lazzaretto”, cioè il luogo dove andavano in convalescenza tutti i militari che ritornavano feriti dal fronte, e i tedeschi avevano qui requisito gli alberghi che erano dotati di riscaldamento. Avevano requisito il nostro “Pelmo”, l’albergo “Marcora”, e altri quattro o cinque della zona. E così il paese era diventato praticamente una specie di ospedale militare, una casa di cura. Ricordo che uno dei comandanti – mi sembra si chiamasse Hartmann – aveva un’amante che abitava proprio sotto il nostro albergo, quindi era diventato un cliente nostro e ci portava spesso qualcosa da mangiare o da far cucinare per lui, perché la mamma cucinava bene. Insomma, ci aveva preso in simpatia.

Nei duri anni della guerra una delle cose che mancavano in montagna era il sale, anche quello era tesserato, e di scarsa qualità. Una volta abbiamo dovuto comprarne un quintale al mercato nero, dove costava 40-50 mila lire (più di qualche milione di adesso), per potere cucinare, perché eravamo rimasti proprio senza. Normalmente si comperava il salgemma e per andare ad acquistarlo bisognava andare fino a Dobbiaco. Con il trenino si doveva superare Cortina, dove c’era la Dogana Vecchia. Durante la guerra la Dogana Vecchia era stata ripristinata come dogana, perché Cortina era una delle aree che facevano parte del Sud Tyrol, dicevano loro, e quindi c’era una specie di dogana gestita e controllata dalla Todt, l’organizzazione militare costituita da militari assunti dai tedeschi come milizia regionale. Di lì passavano la strada e la ferrovia, e la Todt faceva continuamente controlli; non molto accurati, però qualcosa faceva. Molti erano i cadorini di Borca, Pieve e Belluno che andavano a Dobbiaco a comperare il salgemma, e si era instaurato così un via vai continuo di questa gente. Quelli della Todt, in buona parte cortinesi, a un certo punto sono diventati matti, forse, e hanno cominciato a requisire il sale che le famiglie si portavano a casa. Una notte i partigiani, esasperati dai sequestri di salgemma alla popolazione del Cadore, hanno preso d’assalto la caserma di Dogana Vecchia, e purtroppo ci sono stati addirittura due morti. Questo fatto ha subito scatenato una reazione; per fortuna i morti erano di Cortina e non tedeschi, perché altrimenti i tedeschi avrebbero preso degli ostaggi, mentre quelli di Cortina l’hanno considerato un fatto loro interno. Per fortuna. E durante i funerali i cortinesi si sono messi a urlare dicendo che dovevano essere bruciate le prime case di San Vito, quelle vicine a Dogana Vecchia. Il nostro albergo era il primo al di qua della Dogana; eravamo a tre chilometri, ma eravamo il primo, quindi di certo ad altissimo rischio. Per fortuna il comandante Hartmann ha bloccato questa manifestazione, e ci ha salvati.

Un altro aneddoto che mi piace ricordare è il seguente: il maggiore Hartmann apprezzava molto la mamma. Quando due anni dopo i tedeschi hanno sgomberato il “Pelmo” si sono portati via tutti i materassi del nostro albergo. La mamma, con un coraggio da leone difficile da immaginare oggi, ha preso la bicicletta, ha inseguito la colonna in ritirata, l’ha fatta fermare e grazie all’amicizia con Hartmann, ha fatto scaricare tutti i nostri materassi. Era ad Acquabona, dove noi siamo andati poi a prenderli con un carretto.

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