Founder Junior
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Racconto di Cristina Belloni
PERCORSI
Questo è la storia di una macchia sul muro.
Una grande e complessa colatura marrone i cui fitti andamenti orizzontali e verticali si intersecavano e sovrapponevano, con diverse consistenze e forme, gocce allungate e rigonfiamenti.
Un insolito labirinto cromatico, finito per caso sulla parete dello studio di pittore, dell’allora mio ragazzo che dipingeva in dripping.
Ma è anche il racconto di un viaggio nel variegato marasma della mia esistenza e, in qualche modo, della mia mente.
Un pellegrinaggio reale e metaforico al tempo stesso, senza logiche apparenti, intrapreso per gioco attraverso quel delicato groviglio marrone sulla parete bianca verso un domani immaginato confusamente ricco e pieno e rivelatosi poi difficile e banale.
Mi piaceva guardare quella forma composita e articolata. Sembrava una mappa, un intrico di canali di una laguna, un fascinoso tragitto in una delle “Città invisibili” di Calvino.
Restava una presenza costante nel piccolo seminterrato che era allora, nei cupi e fumosi anni settanta, il nostro rifugio dal mondo. Lo “studio” come lo chiamavamo seriosamente. La base sicura da dove pianificare tutti i futuri possibili per due ragazzini innamorati e ribelli.
Ed io osservavo quella filigrana colorata dal vecchio divanetto, nel dolce, tiepido torpore che assale dopo aver fatto l’amore avvolti nel sacco a pelo. Quando lui mi si addormentava accanto, nei lunghi pomeriggi trascorsi insieme dopo la scuola.
La vedevo con gli occhi socchiusi, scorrendo percorsi e figure sempre diversi al suo interno, come capita guardando le nuvole o il legno contorto di una radice e vi si scorgono strane costruzioni, animali, facce, caricature, sguardi….
Poi venne il tempo di crescere.
Il tempo tumultuoso nel quale la realtà reclama beffarda i sognatori.
Un figlio inatteso in arrivo rimodellò la nostra vita.
Al lieto stupore di scoprire un piccolo essere muoversi dentro di me, si sovrapposero i timori e le preoccupazioni, le incomprensioni e gli affanni. La ricerca di un lavoro, di una casa, di un assetto stabile per “costituire” una famiglia.
Dovemmo lasciare la piccola stanzetta della nostra adolescenza per stabilirci nel piccolo appartamento della repentina trasformazione in adulti.
Abbandonammo là dentro le velleità, le ambizioni i sogni giovanili, per immergerci nostro mal grado nella quotidianità pratica e faticosa dei doveri, degli impegni, delle sveglie che suonano prima dell’alba.
Qualcosa però portai con me. Forse per non perdere del tutto la magia di quei pomeriggi lenti e dolci, passati ad elaborare tele e teorie esistenziali.
Presi un foglio di carta lucida trasparente, di quelli che si usano in architettura, lo fissai al muro e vi riportai, tracciandone diligentemente i bordi, tutta la siluette della grande colatura.
Avrei riempito l’interno delle sue vene con i disegni delle bizzarre strutture e forme che avevo solo immaginato.
Avrei lasciato che la mia fantasia ritrovasse almeno in parte le tranquille e giocose atmosfere del tempo in cui la fretta di crescere non le fa assaporare pienamente.
Quando?
Non sapevo quando. Tra il lavoro, il bimbo, la casa da accudire, le incombenze e tutto il resto, non mi restavano troppi momenti da dedicare a me o a quello che mi interessasse.
Infatti il foglio rimase per molto arrotolato all’interno di un armadio; ed anche per il compimento della sua stesura ci volle un lungo periodo della mia vita.
Finché un giorno aprendo quell’armadio, notai far capolino dietro una pila di lenzuola, il cilindretto porta disegni che sapevo contenere il tracciato della macchia.
Lo srotolai delicatamente e ancora la magia delle sue forme contorte ravvivò la voglia di scoprirne i segreti.
Fu così che inizia prima a matita, poi con la china nera, a far emergere a poco, a poco il paesaggio fantastico e surreale che la mia mente scorgeva nel dipanarsi delle linee e dei volumi
In principio mio padre.
Non c’era nessun indizio dell’identità, ma sapevo fosse lui.
Un padre sentinella, vestito come un alabardiere quattrocentesco, visto di schiena.
Una figuretta solitaria, secolare, di legno nodoso, con un buffo cappelletto sulla testa e una lancia sbilenca, decorata a bande bianche e nere su cui si poggiava . Trovato li, a guardia di un qualche passo montano alle sue spalle, o di una stretta gola che si apriva su un vasto orizzonte.
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Recensione offerta da Cristina Belloni, critico d'Arte e scrittrice, a Simonetta Pantalloni per l'opera: "Colpevole di essere" olio su tela 90x60.
Il corpo coperto dal burqa, i polsi legati, nodi lacci in tutta la costruzione del quadro. Le mani protese, vuote, impotenti, gli sguardi celati non lasciano dubbi sul malessere che Simonetta Pantalloni vuole qui rappresentare. Ma più che i soggetti femminili, che rimandano chiaramente alla situazione attuale delle donne afghane, sono i nodi dei drappi a suggerire le strette dell'anima oltre che della persona. Del resto molta della produzione dell'artista è incentrata su questo tema: gli intrecci di legature, le stoffe piegate, contorte che costruiscono trame e reticoli attraverso cui la comunicazione stenta ad attuarsi. A prescindere dal soggetto specifico, l'accento linguistico della Pantalloni è basato sullo scandire la negazione del livello immediato dei rapporti umani, la difficoltà di confrontarsi che spesso limita le nostre azioni. Un tema più che mai presente in una società complessa ed estraniante come la nostra. Un cromatismo neutro ma deciso fa risaltare il rosso vivo delle legature e la sapiente realizzazione delle pieghe e delle luci del tessuto in motivi formali precisi e nell'equilibrio della composizione .