Cristiana Lenoci

Blogger, redattrice web

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Davide Urso: 21 Nazioni europee e 59 giorni in solitudine: ecco il suo “Diario di un’odissea positiva”

2019-03-24 15:19:40

Avete mai pensato a come sarebbe la vostra vita se decideste un giorno di lasciare il lavoro, lo stress, la banale quotidianità e partire alla scoperta del mondo in totale solitudine? Questa domanda probabilmente ce la siamo posta senza aver mai veramente provato a darci una risposta. Ebbene, un ragazzo che ha avuto il coraggio di farlo c’è: Davide Urso, nato ad Andrano (Lecce) è come a lui stesso piace definirsi, un cittadino del mondo. Quel mondo che aspetta solo di essere esplorato da occhi curiosi, come i suoi, senza troppa paura o diffidenza verso l’ignoto. Partendo da Madrid fino a giungere a Capo Nord per poi scendere in Italia e tornare in Spagna, Davide ha attraversato 21 nazioni europee, per un totale di 59 giorni a bordo della sua macchina, che per l’occasione è diventata anche il porto sicuro in cui rifugiarsi per riposare o cucinare utilizzando un semplice fornelletto da campeggio. Su questa straordinaria avventura vissuta “in solitaria” Davide ha scritto un libro, pubblicato con il titolo “Diario di un’odissea positiva” nel quale emerge sia la difficoltà di affrontare un lungo viaggio in compagnia di se stessi, che la grande soddisfazione di esserci riusciti. Come un moderno Ulisse, Davide affronta le sue paure e i successi con il sorriso e la simpatia che lo contraddistinguono. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo e rivivere insieme a lui le emozioni vissute nei suoi sorprendenti viaggi.

Quando hai capito di essere pronto per affrontare un viaggio in solitaria?

 

In realtà non l’ho mai saputo realmente. Quello che ho dovuto affrontare principalmente è stata la paura di restare solo. Ma quando mi sono reso conto che questo avrebbe condizionato la mia vita, ho deciso che dovevo affrontarla e risolverla. Se ci fosse stato qualcuno pronto a venire con me, ne sarei stato felice, ma non volevo che la mancanza di compagni di viaggio potesse in alcun modo influenzare le mie scelte.

 
Come scegli le tue tappe o i luoghi da visitare?

Quando ero poco più che un ragazzo decidevo le mete in base alle mie esigenze o ai miei desideri. Quando ho deciso di andare a Capo nord ad esempio l’ho fatto perché avevo bisogno di un obbiettivo da raggiungere. Capo nord, così come il Salento, è un luogo di arrivo e non di passaggio. Nessuno si trova a passare da Capo Nord se non dopo aver preventivamente organizzato un itinerario. Quando sono riuscito a fare della mia passione un progetto lavorativo, diventando travel blogger,  ho avvertito la responsabilità e l’esigenza di cambiamento nei confronti di quelle persone che hanno deciso di investire su di me e di cui adesso devo tener conto nelle mie scelte.

 
Quando decidi di organizzare un viaggio preferisci rivolgerti ad altri viaggiatori in cerca di consigli o preferisci organizzarlo autonomamente?

 
Ci sono diversi livelli nell’organizzare un viaggio: il primo è quello di dialogare con chiunque e indipendentemente da quello che io voglia fare. Quando parlo con le persone cerco di annotarmi i loro consigli o i luoghi che hanno visitato per poi organizzare un personale itinerario. Quando stabilisco la meta passo al livello successivo, cercare informazioni da un punto di vista “mediatico”. Ricerco consigli da altri altri travel blogger in modo che possa trarre qualche ispirazione o anche da qualche persona del posto con cui poter relazionarmi. In questo caso i social network, le app o vari siti di couchsurfing aiutano parecchio.

 In questa ricerca, hai mai trovato difficoltà, da un punto di vista culturale o linguistico che non ti hanno permesso di interagire con la popolazione locale?

 Ci sono state volte in cui effettivamente comunicare con la popolazione del posto è stato difficile. Ad esempio ci sono nazioni come l’Ucraina, la Romania, o la Bulgaria dove non tutti conoscono l’inglese le difficoltà linguistiche sono all’ordine del giorno. Ma c’è una differenza tra comunicare (in questo caso anche i gesti possono bastare per capirsi) e relazionarmi con la gente del posto. Un sorriso, una bevanda offerta o una foto scattata insieme si presentano come opportunità di relazionarsi sia con la comunità locale e sia con i turisti che si incrociano lungo il tragitto, e con cui si può decidere di condividere un pezzo del viaggio.

 Di difficoltà ne hai avute tante, ma c’è mai stato un momento, in preda al malumore, in cui hai pensato di abbandonare tutto e tornartene a casa?

 Assolutamente si. Pensa ad un ragazzo di 30 anni che un giorno è a Madrid, il giorno dopo a Bordeaux, poi Bruxelles, Amsterdam...ogni giorno visita una città incredibile e diventa il ragazzo più felice del mondo. I primi dieci giorni passano velocemente, dopodiché l’entusiasmo iniziale sparisce e ciò che prima sembrava diventa routine. Lì inizi a sentirti solo. C’è stato un giorno quando, in preda alla malinconia e alla tristezza più totali, seduto su di una panchina, mi si avvicina un ragazzino di circa 16 anni con un pallone sottobraccio che mi invita a giocare a calcetto con i suoi amici. Lo seguii e in breve tempo tutto mi apparse improvvisamente più chiaro. Avevo compreso che la gente disposta ad essermi amica c’era, sempre e in ogni momento, ma stava a me mostrarmi disponibile a loro senza aspettarmi che fossero gli altri a fare il primo passo. Quando restavo solo era perché lo decidevo io. Da quel momento in poi non ho più sofferto la solitudine.

 Uno dei piaceri correlati al viaggio è il cibo. Tendi a preferire lo street food e assaggiare la cucina locale o durante questi lunghi viaggi senti ad un certo punto l’esigenza di addentare una pizza?

 Dipende molto dal budget che ho a disposizione. Mi piace assaggiare i piatti tipici del luogo prevalentemente durante i week end, ma quando viaggio per parecchi mesi con un budget basso, ho bisogno di limitarmi nelle spese. Così la maggior parte delle volte cucino per me stesso, perciò la cucina italiana non mi è mai mancata. Una volta ero a Budapest e trovai un all you can eat italiano dove per 14 euro potevo scegliere qualsiasi pizza cotta in forno a legna, pasta fresca con diversi condimenti che ti arrivavano direttamente al tavolo. Era un concetto del tutto nuovo, per questo decisi di provarlo e mi piacque anche molto. Ma è stata l’unica volta che ho mangiato italiano all’estero.