Storia & Antichità
Le patate fanno diventare intelligenti? E le posate di alpacca.
Ecco l'inizio della autobiografia di Dino Boscarato, "Una storia veneta", edito da Terraferma edizioni. Presto sarà disponibile su cam.tv una copia digitale, stiamo lavorando per adattarla al formato pfd
Una storia veneta
Sono nato a Santa Lucia di Piave e quando avevo due anni la mia famiglia si è trasferita in Cadore, dove sono cresciuto e mi sono formato da vero montanaro, nel senso che là i bambini lavoravano quando non erano a scuola. Così io, verso i sette anni, già pelavo le patate nella cucina del nostro albergo a San Vito di Cadore.
Fra i primi ricordi che riemergono dall’infanzia c’è sicuramente la festa che si faceva quando si uccidevano i maiali, occasione di gran mangiate di costicine e di salame fresco con la polenta o con le patate. Le nostre patate dovrei dire perché le coltivavamo noi ed erano particolarmente buone. Farina infatti non ce n’era, e quello che si poteva trovare in giro erano patate e basta; io ne ho mangiate tante, e non ho mai dimenticato la frase di un prete, direttore del collegio di Borca di Cadore, il Pio X, che soleva dire: “Ragazzi, mangiate tante patate, così diventerete intelligenti!”. Io ne ho mangiate tante, ma non so dire quanto intelligente sono diventato.
Scherzi a parte, le patate del Cadore erano davvero buone e io me ne facevo delle gran scorpacciate perché anche solo con un po’ di sale e, se era possibile, un po’ di burro (perché anche di olio ce n’era pochissimo) mi toglievo la fame. Ne mangiavo pure quando tornavo a casa da scuola, alle cinque del pomeriggio.
Ma tornando ai fatti legati alla mia infanzia, oltre al lavoro in cucina, ricordo con molta chiarezza le posate di alpacca. L’albergo non aveva naturalmente l’alpacca argentata, come si usa adesso, o l’acciaio, ma le posate di alpacca, che dovevano essere pulite ogni giorno con farina di pomice e con dei tappi che servivano proprio a far aderire la farina alle posate in modo da pulirle bene. Uno dei crucci della mia infanzia era proprio questo lavoro che mi affidavano, perché invece di andare a divertirmi con i miei amici dovevo stare in casa a pulire le posate di alpacca. Lo facevo assieme a una cameriera, una cavallona che mi aveva preso in simpatia e alla quale mi divertivo molto a sciogliere il nastro del grembiulino ogni volta che mi passava vicino. Ma piangevo, anche.