Una Storia veneta. L'avventura di Dino Boscarato

Founder Junior

1- Una Storia veneta. Nascita di un Jolly (prima parte)

2020-02-02 07:59:19

Ecco il primo articolo di quelli che riepilogheranno il libro “Una storia veneta“, attualmente esaurito. Partiamo con l'introduzione di Ivo Prandin, prima parte. Nella foto, a Destra, Dino e Mara Boscarato con Enzo Biagi. Il primo a sinistra è Ivo Prandin, autore dell'introduzione.

Proprio “nel mezzo del cammin” della sua vita, Dino Boscarato ha avuto l’intuizione che gli ha fatto dribblare il destino e si è trasformata in un progetto che avrebbe condizionato la sua vita futura di ristoratore raffinato e amico degli artisti. Un progetto, quello ideato nello scenario delle Dolomiti, che si sarebbe pienamente realizzato se si pensa alla sua più famosa invenzione, il Ristorante Dall’Amelia di Mestre. Era una trattoria quasi periferica quando lui è arrivato, e Mestre era una città in espansione: due condizioni per mettere alla prova le sue ambizioni di giovane imprenditore e per esercitare al meglio le qualità umane e professionali di cui era dotato.

Nelle sue mani, la vecchia Trattoria Dall’Amelia si è lentamente trasformata, è cresciuta in qualità e in presenza, diventando presto l’esempio di uno stile che Dino – insieme a Mara e ai collaboratori – ha trasmesso ai figli. Un modo di fare gastronomia che, va detto, avrebbe avuto come “effetto collaterale” quello di essere imitato.

Nella sua biografia, la svolta ha cominciato a prendere forma intorno ai trent’anni di età, quando questo figlio di albergatori del Cadore ha scelto e imboccato una strada diversa da quella che gli era stata assegnata dalla famiglia. E non è stato soltanto uno sbocco professionale a dargli l’emozione del nuovo, ma proprio un percorso nella geografia entro la quale era cresciuto, gli occhi pieni di boschi e di rocce amate dal sole che – sanno bene i villeggianti e i turisti stranieri – trasforma i giganti di roccia in materia dorata nei momenti più simbolici della giornata, all’alba e al tramonto: oro di natura, pura bellezza gratuita.

La svolta di Dino è stata il passaggio dalla montagna alla laguna per viverle insieme nella cultura gastronomica che stava elaborando e che gli avrebbe dato la notorietà.

In realtà, quello che è successo a Dino non è stato un ripudio della sua vita come si era svolta fino allora, ma una scelta di percorso che aveva radici nel mestiere. In altre parole, il giovane e intraprendente albergatore aveva definito perfettamente il suo territorio di operazioni sia nel passato sia, soprattutto, nel prossimo futuro: idee chiare, propositi forti, e un’avventura che lo aspettava “laggiù” in pianura oltre la linea dell’orizzonte. Una volta passata quella linea, per Dino non sarebbe stato facile tornare indietro, anzi sarebbe stato forse impossibile, e comunque non desiderabile: il gestore dell’Amelia era un altro uomo rispetto a quello “venuto dal Cadore”.

E così, in effetti, consapevole e determinato, ha preso la sua decisione: ha abbandonato un modo di esercitare l’arte dell’accoglienza e del benessere dei villeggianti preferendo semplificare le cose e concentrarsi sul momento del cibo, del nutrimento, verso il quale aveva una spiccata vocazione. La scelta significava inventarsi un’eccitante e corroborante tavola purché fosse imbandita con stile elegante, bella come un’aiuola in primavera e dai profumi ancora più avvolgenti.

Questo, si diceva, è accaduto veramente, senza che ci fosse incompatibilità fra le due professioni. Un buon gourmet può essere il jolly che fa vincere la partita del gusto in qualsiasi occasione, specialmente quelle più difficili che hanno il vizio di capitare all’improvviso.

La nuova meta – un ristorante tutto suo – appariva a quel giovane cadorino carico di entusiasmi come una visione, e in realtà aveva ancora le sfumature e l’indeterminatezza dei sogni a occhi aperti: non era infatti del tutto sostenuta e giustificata da una chiara prospettiva progettuale. Era l’immaginazione che la proiettava sullo schermo della sua fantasia. Però, più ci pensava, più la sentiva attraente.

Era un po’ come guardare giù nella valle e vedere l’orizzonte veneto fra veli di nebbia: si percepisce la distanza, e tanti particolari sfuggono. Ma che importava a lui? Si sa che gli oggetti più nebulosi, a volte, sono quelli più attraenti perché lasciano nel vago quello che appartiene al futuro, ovvero quello spazio destinato a essere dominato dall’inventiva personale.

E Dino si sentiva attratto dalle cucine e dalle fantasie dei cuochi, dalle sale pullulanti di ospiti che in parte onoravano l’invenzione gastronomica, in parte sfidavano con il loro gusto le qualità del patron e del suo staff. La tavola era per lui più movimentata della routine alberghiera, più eccitante, e lo coinvolgeva totalmente. Era anche una questione di tendenza personale alla convivialità, alla tavola che unisce persone e personalità diverse, un po’ come succede in viaggio, per esempio in treno dove lo scompartimento è uno spazio ristretto e temporaneo. Ci si trova con altri senza impegno alcuno, messi lì dal caso o da una vaga somiglianza di interessi quali che siano, culturali, gastronomici, di categoria. La tavola-scompartimento raccoglie un gruppetto di persone perché condividano come piccola comunità temporanea il piacere di stare insieme, di scoprire la propria identità, di spartire qualcosa di fondamentale come il cibo. Non per niente lui credeva alla “civiltà della tavola”.

È andata così: nell’anno di grandi celebrazioni nazionali, cioè del centenario dell’unificazione dell’Italia, che si ricorda infatti come “Italia ’61”, l’uomo che sarebbe diventato uno dei più famosi manager della ristorazione del Nordest e dell’Italia, ha deciso di giocare tutte le sue carte, e oggi possiamo dire – col senno di poi, cioè ragionando sulla sua storia – che cambiando lo scopo della sua vita, Dino si è trovato bene nel ruolo di gourmet, anzi si è trovato benissimo. Infatti, non è per caso se è diventato presidente mondiale dei sommelier e se ha potuto lasciare una bella eredità ai figli e alla cultura gastronomica italiana e regionale.

Quella eredità è costituita dal “fenomeno Amelia”, il prestigioso ristorante di Mestre che però Boscarato chiamava ancora Trattoria (ma con la maiuscola) e la cui fama inizia proprio da lui, dalla sua gestione che è durata quarant’anni. Sotto la sua mano, una tranquilla trattoria quasi fuori Mestre, a cinquecento metri dalla stazione e ubicata come una stazione di posta su una curva della sempre trafficata strada Miranese, si è evoluta, e da osteria qual era ai tempi della signora Amelia si è trasformata in trattoria di un certo tono e poi, velocemente, in un ristorante di raffinate proposte gastronomiche in grado di attirare una clientela medio alta e nazionale.

La vita precedente di quell’esercizio a ridosso dei binari della linea ferroviaria è da considerarsi come preistoria (in fondo, che cos’era Mestre? Un nodo ferroviario e stradale, una terra promessa del salario sicuro…), il che però non significa che sia senza valore e significato, come questo libro aiuterà a capire. In effetti, ogni storia ha una preparazione, si sviluppa su basi o radici che possono restare a lungo o per sempre ignorate, diciamo segrete come le fondamenta di una casa o come il carattere di una persona.

Fra tanti capitani d’industria venuti dalla terra anziché dalla Bocconi o da Oxford, anche Dino Boscarato ha frequentato l’università della vita e ha fatto di se stesso lo strumento di conquista di un posto eminente, forte di quel lievito che è l’ambizione, il puntare in alto. La terra boscosa dove Dino è nato e vissuto per i primi trent’anni è stata anche la sua scuola, più del liceo frequentato fino alla maturità a Cortina: da lì, raccontando un giorno i suoi inizi, cioè gli anni di gavetta fra le Dolomiti, lo stesso Boscarato ha voluto partire con la storia della propria vita. E su quel mondo dolomitico anche noi apriamo il racconto.

La fortuna della trattoria di Mestre coincide abbastanza bene con il boom della città, estensione di Venezia in terraferma, in un intreccio che appare “naturale” quando una forte personalità inizia ad agire in una realtà sociale in fase di sviluppo intensivo, per non dire senza limiti. Mestre e Boscarato sono uno dentro l’altro, combaciano perfettamente perché spinti dalla stessa febbre da crescita.

(fine della prima parte)

Le foto:

- Dino Boscarato con Sandro Pertini in visita al ristorante dall'Amelia

- Piatto offerto ai clienti per le feste di Natale disegnato da Salvatore Licata

- Disegno fatto su tovagliolo da Neri Pozza

Ivo Prandin

E' uno scrittore e giornalista italiano.

Ha scritto l'introduzione al libro "Una storia Veneta" (Terraferma Edizioni).

Nato a Bosaro in provincia di Rovigo nel 1935, è stato inviato speciale e responsabile della redazione culturale del quotidiano Il Gazzettino e ha diretto la rivista di cultura e turismo Leo pubblicata in italiano e inglese a Venezia.

La maggior parte della sua produzione come autore di fantascienza è concentrata negli anni 1958-1963 con numerosi racconti, venendo pubblicato nelle pagine della rivista pionieristica Oltre il cielo assieme ad alcuni degli altri principali autori italiani dell'epoca: Renato Pestriniero, Vincenzo Croce, Gianni Vicario e in seguito Lino Aldani. Ivo Prandin ha utilizzato come pseudonimi i nomi di Max jr. Bohl e Ipran.

Dalla fine degli anni settanta ha pubblicato alcuni romanzi.

Ha scritto i testi di numerosi libri di fotografie di Fulvio Roiter (tradotti in più lingue), Lou Embo, Fernando Bertuzzi, Clive Handerson e profili di artisti contemporanei.

È stato uno dei principali autori della fantascienza italiana degli "anni d'oro" (1952-1960).

Ha scritto anche di arte e si è dedicato al disegno e alla poesia.

Tratto da:

https://it.wikipedia.org/wiki/Ivo_Prandin