Stefano Rossi

Top Founder President

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MUSICA - 26/10/1911, NASCE LA CANTANTE GOSPEL MAHALIA JACKSON.

2018-10-26 14:18:26

La sua voce incarnava il gospel moderno, era espressione di un puro slancio liberatorio, di una schietta, incontaminata devozione al divino combinata a una letizia tutta terrena e palpabile: un tornado con la vitalità sensuale di un’adolescente.(Un articolo di Luciano Federighi)

UNA VOCE CALDA E INTENSA CHE SI DEDICÒ SOPRATTUTTO AI CANTI RELUGIOSI.

Quel contralto di straordinaria vastità e di tonante quanto elegante irruenza, uno strumento dai tratti muscolari e curvacei e dal carattere insieme sacrale e sanguigno, riassumeva tensioni e emozioni, fantasia, dolore e speranze dell’esperienza afroamericana del Novecento. Echeggiava i blues di Bessie Smith ma anche il primo jazz di Storyville, pulsava dei ritmi danzanti della second line delle parate neorleansiane e disegnava le più assorte e ariose melodie degli inni tradizionali, era a suo agio accompagnato dal piano scabro e percussivo di un’umile chiesa pentecostale come pure integrato nella policroma coralità orchestrale diDuke Ellington, aveva un’affinità profonda con il respiro rauco e irresistibile di un predicatore di strada e intanto preannunciava la grandiosità e la lirica immaginazione dei sermoni di Martin Luther King. L’aggettivo «intenso» – oggi tanto abusato da perdere ogni capacità descrittiva – calzava perfettamente alla voce di Mahalia Jackson. Il grande scrittore afro-americano Langston Hughes così la rievocava: «Una volta, in una fredda serata d’inverno a Chicago, prima che Mahalia Jackson raggiungesse la grande popolarità a livello nazionale, la andai a sentire che cantava le sue canzoni religiose in una chiesetta del South Side. Il maltempo aveva trattenuto molti a casa e il poco pubblico presente era intirizzito. Eppure Mahalia riuscì a scaldare la chiesa con l’intensità del suo canto».

UNA PRESENZA SCENICA ED UNA VOCE IMPONENTI.

Il regista Jules Schwerin, autore di un importante documentario sulla cantante di New Orleans, fu testimone di questo abbagliante connubio tra «una voce monumentale» e una peculiarissima «stregoneria spirituale» sin dal suo primo impatto con una performance sacra di Mahalia, in un torrido revival all’aperto tenutosi nel 1955 nei pressi di New York. «C’era un’imperiosità straordinaria nel suo stile radicato nella chiesa sanctified,» scrive Schwerin in Got To Tell It.«Gemiti e ruggiti e grida portavano a climax da far venire i brividi, un’esaltazione della forza vitale in una voce che elevava le mille anime presenti a uno stato di rapita meraviglia, e probabilmente di grazia». E la celebrativa trascendenza di quella voce, e le sue virtuosistiche, chiaroscurali tortuosità modulatorie, si accompagnavano – quasi miracolosamente – alle movenze ondeggianti e ancheggianti di un corpo di ben oltre cento chili che danzava sul palco con una leggerezza di piuma, «un tornado con la vitalità sensuale di un’adolescente».

NACQUE A NEW ORLEANS E SI TRASFERÌ A CHICAGO.

I vibranti e struggenti moans e groans di Mahalia, i suoi shouts disinibiti e la sua libera e palpitante tensione ritmica erano calati nel fertilissimo terreno multiculturale di New Orleans (dove nacque nel 1911) e più specificamente legati ai fermenti emotivi e alle esuberanti pratiche musicali della Holiness Church sudista. Ma fu il South Side nero di Chicago, dove Mahalia Jackson giunse adolescente, sull’onda del portentoso flusso migratorio dal Meridione al Nord industriale in corso sin dagli anni della prima guerra mondiale, a vedere il suo talento prendere forma e la sua arte acquistare gradualmente risonanza e prestigio. Nella metropoli dell’Illinois, presto nota come «il Vaticano del gospel», la voce imponente e dinamica della giovane Jackson – strumento di contrastata luminosità, fiero e esplosivo, a gola aperta e a pieni polmoni – contribuì insieme a quella coriacea di Sallie Martin, a quella ardente di Willie Mae Ford Smith, a quella dignitosa e elegante di Roberta Martin, a illustrare per le congregazioni battiste degli anni Trenta l’innovativo e ispirato repertorio del suo mentore Thomas A. Dorsey, il grande pianista e compositore che veniva (come Georgia Tom) dall’universo secolare e «peccaminoso» del blues, e a gettare di conseguenza le basi per l’affermazione del gospel moderno e della nuova vocalità religiosa afroamericana.

I capolavori assoluti appartengono alle sedute del 1954-1956 con le piccole formazioni guidate dal piano della fedele Mildred Falls e dall’organo di Ralph Jones: nel clima misterioso di Keep Your Hand On The Plow, nel gioioso e swingante Walk Over God’s Heaven, nel sottile crescendo del Move On Up rivisitato, in un accorato Precious Lord, Take My Hand, omaggio al maestro Thomas A. Dorsey, Mahalia esibiva il suo maturo, incantatorio senso narrativo, la sensualità pura e bruciante delle sue invocazioni, i suoi eloquenti contrasti cromatici e le pieghe tonali, il suo modo unico di palpeggiare e modulare le parole, di sposarne e personalizzarne il suono e il colore, il prodigioso melisma capace – come ha suggerito lo storico del gospel Horace Clarence Boyer – di sviluppare un’intera frase melodica da una sola sillaba.