Patrizia Masciari

Mystic Mentor

Un’altra idea di salute

2022-03-13 09:30:08

“Noi, i nostri corpi - a dispetto dell’ideologia dominante soprattutto in occidente - non siamo l’esito di un programma genetico “aggiustabile” per conformarsi alle esigenze del sistema tecno-capitalista. Siamo piuttosto l’esito di una storia, di un’ecologia, di un intreccio complesso e variabile di forme di vita che va riconosciuto, abitato e trasformato, in una dimensione al tempo stesso individuale e sociale. È, questo, un conflitto inconciliabile tra due concezioni del vivente; un conflitto che è più che mai urgente rivendicare e praticare se vogliamo elaborare strumenti di resistenza, sia pratici che teorici, che siano all’altezza dell’attuale incubo totalitario. 

Proverò a portare un paio di riflessioni che penso potrebbero servirci collettivamente a resistere, ad avere armi nel nostro immaginario, nel modo in cui guardiamo il mondo. Perché penso che quando guardiamo il mondo e vediamo questa logica che si sta diffondendo - questo tecno-orrore, questo ordine tecno-scientifico, biotecnologico ecc. -, siamo d’accordo che abbiamo bisogno di strumenti per resistere. Vorrei iniziare premettendo che io lavoro nella scienza – insegno all’università di Genova – sono pagata come “scienziata”, a cavallo tra l’antropologia biologica – che è una scienza hard, come quelle i cui orrori ci sono stati ben descritti negli interventi precedenti – e l’antropologia culturale – che invece è una disciplina potremmo dire più “qualitativa”, più “di resistenza”.

In quanto antropologa, quindi, a me della scienza importa solo il giusto, nel senso che per me la scienza è un sistema conoscitivo valido all’interno di un certo mondo, che è il nostro; ma appunto, da antropologa, per me sono altrettanto valide le danze degli sciamani indiani del Nord America, la medicina tradizionale cinese, quella amazzonica che utilizza le piante-maestro della foresta, e via dicendo. Quindi metto questa cautela: vi parlerò di scienza, ma non vorrei che pensaste che la scienza sia, per me, un orizzonte unico, perché in effetti non lo è proprio.

Detto questo, nella scienza attuale – mi riferisco alle sue parti più marginali e per certi aspetti più visionarie – c’è una lunga serie di interessanti strumenti di resistenza. Un po’ come nella società civile o nel Vaticano, anche dentro la scienza c’è di tutto: c’è questa deriva, assolutamente insopportabile, di cui abbiamo parlato prima, ma ci sono anche molte proposte potenzialmente utili. Oggi ve ne porto una, che appunto è a cavallo fra l’antropologia biologica e l’antropologia culturale, e che serve, almeno inizialmente, a provare a immaginare un’altra idea di salute, un’altra idea di medicina, un’altra idea di cura, che riescano a opporsi a quelle che ci stanno vomitando addosso, e riescano a farlo con uno strumentario ascoltabile anche dalla maggior parte della popolazione che ci circonda.

 Sappiamo tutti infatti che in questo momento c’è un enorme problema di comunicazione: in generale se provate a dire qualcosa sui vaccini, vi beccate immediatamente delle accuse di “fascista” o di “terrapiattista”, venite immediatamente gettati ai margini della discussione. La medicina, la salute, le tecnoscienze e tutto questo sistema che ci viene proposto hanno una forza materiale, una forza di ricerca e una forza epistemologica altissime; ci inducono a pensare che è necessario giocare quel gioco, che non è possibile pensare altre forme di salute e altre forme di cura. Ma tutto questo impianto, tutta questa logica di biomedicina / tecnomedicina / nano-medicina / medicina telematica ha un punto cieco che ci conviene mettere a fuoco. 

Il punto cieco è questo: tutto ciò si basa sull’idea che esista una normalità del corpo umano, che esista una normalità fisiologica, sostanzialmente identica per tutti e tutte; che tutti siamo fatti più o meno alla stessa maniera e che quindi, una volta parametrizzate tutte le variabili, sia possibile intervenire in modo standard, attraverso degli algoritmi. Ora, una delle possibili linee di resistenza a questa idea è quella di prendere contatto – un contatto di pancia – con il fatto che la normalità fisiologica non esiste. Non esiste il corpo normale, non esiste il singolo corpo sano che fa da pietra miliare della salute, non esiste un corpo i cui parametri possano rientrare in una caratterizzazione univoca della salute o in una serie di valori fissi o comunque standard. Questo in due sensi diversi. 

Innanzitutto, se noi facessimo adesso le analisi del sangue di tutti noi, ciascuno di noi avrebbe almeno qualche parametro fuori norma: non perché è malato, ma perché la variabilità umana è talmente alta che ciascuno di noi non rientra in tutti i parametri standard. Anche perché i “parametri standard” sono, per l’appunto, standard, è come se fossero “equalizzati”, e vengono cambiati col passar del tempo anche a seconda di certe convenienze. 

Vi ricordo, solo per fare un esempio, quando il tasso di riferimento di insulina nel sangue è stato modificato per riuscire a vendere a un’altra fascia di popolazione i farmaci per tenere sotto controllo il diabete. C’è poco di seriamente scientifico nei parametri che ci vendono, ci sono delle standardizzazioni che lasciano fuori una fetta enorme della nostra variabilità. La variabilità della nostra specie, però, ci dice che non esiste una cura standard per un umano standard: ciascuno di noi è variabile, ciascuno di noi deve essere valutato all’interno del suo processo biografico, del suo processo fisiologico, del suo processo di salute.

Non solo: se oggi vi fate le analisi del sangue, e poi le rifate fra un mese, e nel frattempo vi è successo qualcosa di molto brutto o qualcosa di molto bello, è possibile che i valori saltino, che siano differenti. Quindi tutta quanta la parametrizzazione non dovrebbe mai tradursi in una normalizzazione, in una valutazione della salute in base a degli indici astratti.

Ma c’è di più, qualcosa di ancora più cruciale dal punto di vista della possibilità di pensare in un’altra maniera alla salute. I nostri corpi non sono l’esito di un programma genetico. Quest’idea che siamo solo i prodotti dei nostri geni ce la mettono in testa fin da quando andiamo alle scuole elementari, perché probabilmente è conveniente, e sicuramente è molto congruente con la logica del sistema tecno-capitalista in cui tutto si basa su di un programma.

Ma non è così, i nostri corpi non sono lo sviluppo di un software genetico, ma l’esito dello sviluppo nel corso del tempo di una serie enorme di variabili interne ed esterne, l’esito dell’incontro fra un genoma enormemente complesso e condizioni biografiche estremamente variabili. Vi faccio soltanto un esempio, giusto per capirci (dopodiché questo discorso potrebbe essere variamente approfondito): metà delle cellule del vostro corpo – metà! – non sono cellule vostre, non hanno il vostro DNA, ma sono batteri, virus, funghi, procarioti ecc. Questi micro-organismi (che tutti insieme si chiamano “microbioma”) non stavano già lì alla nostra nascita: li abbiamo incontrati nell’arco della nostra vita e con loro abbiamo stabilito un rapporto simbiotico.

Simbiotico in senso stretto, perché se levate dal corpo quel 50% di cellule che non hanno il vostro patrimonio genetico (“non self” come si dice in linguaggio scientifico), siete bell’e morti subito, perché il microbioma digerisce i cibi che mangiamo, ad esempio, e permette tutta una serie di funzioni avanzatissime anche a livello celebrale.

Se ci pensate è pazzesco: quando parlo, io dico «io», ma chissà chi accidenti sono, visto che metà delle cellule di cui sono fatta sono “altro da me”. Io ovviamente penso di essere “Stefania”, con il mio genoma “unico e irripetibile”, mentre “Stefania” in realtà è un mesculùn [volabolo genovese per “mix”] di tutta una serie di cellule diverse. Inoltre le cellule che compongono me non sono le stesse che compongono Mario, anche per il semplice fatto che probabilmente veniamo da due luoghi differenti, le nostre madri erano differenti, lui magari ha avuto un parto naturale e io un parto cesareo, e quindi i primi batteri, virus, funghi con cui siamo entrati in relazione simbiotica erano diversissimi; dopodiché io vivo a Genova e Mario no, io mangio un sacco di pesto alla genovese e quel pesto contiene tutta una serie di funghi, batteri, procarioti ecc., che sono specifici della terra in cui vivo.

E infatti, quando ci spostiamo su distanze brevi continuiamo senza problemi a digerire i cibi, ma basta spostarsi un po’, anche solo verso l’Africa del Nord – dove l’insieme ecologico delle interazioni fra gli umani e gli altri viventi è piuttosto diverso da quello che sperimentiamo normalmente – per rischiare di essere colpiti dalla cosiddetta “vendetta di Montezuma”, la tipica dissenteria dei viaggiatori. Le nostre guide turistiche dicono che la vendetta di Montezuma è conseguenza del fatto che gli altri preparano il cibo in modo poco igienico, perché non sono tanto puliti, sono un po’ selvaggi... Ma sono balle, la dissenteria arriva per la semplice ragione che vi siete spostati verso un’altra terra, una diversa ecologia, e quindi l’“ecologia interna” che è il nostro corpo ha bisogno di un certo periodo per riuscire ad adattarsi; non ha niente a che fare con le condizioni igieniche di produzione, ha a che fare con il fatto che ecologie diverse costruiscono umani differenti.

Allo stesso modo, i geni che noi produciamo continuamente non sono un insieme standard di istruzioni, sono continuamente negoziati, variamente tagliuzzati e ricomposti, a seconda del tipo di circostanze nelle quali ci troviamo: circostanze fisiche ma anche circostanze sociali. E su questo faccio una seconda parentesi. Che cosa ci hanno raccontato della depressione negli ultimi venti o trent’anni? La depressione, o comunque la necessità di assumere psicofarmaci e/o psico-modificatori di altro genere, riguarda una percentuale di popolazione occidentale che varia fra il 60 e l’80%.

Questo significa che se prendiamo dieci di noi, sei-otto fanno uso o hanno fatto uso di psicofarmaci e/o psico-modificatori. E dunque: sono trent’anni che ci dicono che se siamo depressi è perché nella biochimica del nostro cervello “si è rotto” il circuito di reuptake della serotonina e quindi bisogna metterci una stampella. Questa stampella ce la metti oggi e poi te la porti fino alla morte, perché, appunto, quando qualcosa si è rotto bisogna metterci una pezza. L’idea è questa: prima si rompe il circuito della serotonina e poi diventiamo tristi; e cioè: c’è un evento meccanico, probabilmente – dicono loro – genetico («Eh, c’hai il gene malato, quindi ti viene il cancro al seno, ti viene la depressione, ecc.»), e quindi ci mettiamo una pezza.

Ma proviamo un attimo a rovesciare il ragionamento, che è quel che hanno fatto l’antropologia medica e una buona parte della medicina sociale degli anni Settanta (e che anche oggi una piccola parte della medicina continua a fare). Prendete una popolazione, fatela vivere in condizioni sociali schifose, perché catturata dal lavoro, perché intossicata da una serie di shot informatici o chimici, perché le condizioni di vita sono sempre peggiori ecc. Fatela vivere in questa maniera per dieci, quindici, vent’anni, in una condizione di tristezza prolungata, e dopo un po’ – è come se fosse una sorta di adattamento del corpo, o di cedimento del corpo, non so – dopo un po’ vedrete che qualcosa succede, qualcosa si rompe. Ma allora, la freccia può essere disegnata nell’altro senso: non è che prima mi si rompe il circuito della serotonina e poi sono triste: per quel che ne sappiamo, potrebbe essere l’esatto opposto.

In altri termini, i nostri corpi, le risposte fisiologiche dei nostri corpi e perfino le malattie che ci capitano addosso non sono qualcosa di connaturato ai nostri geni, ma dipendono dalle nostre biografie, sono l’esito del tipo di percorso, della storia, delle circostanze che abbiamo attraversato... Ebbene, questo pensiero in qualche modo risolve la vecchia contraddizione, la vecchia opposizione fra la cura di sé e la cura politica, tra la cura del mondo e la cura di sé.

Il processo di cura di sé, il processo di ricerca di una salute differente, di una salute più collettiva, più – adesso uso una parola molto carica – olistica, va tolta dalle grinfie degli ambienti destrorsi. C’è tutta una parte di tecniche – tecniche di cura di sé e del prossimo, tecniche di costruzione di ambienti emotivamente, psichicamente ed ecologicamente sani – che va tolta dalle grinfie dei nostri avversari e di cui faremmo bene a riappropriarci.

In questo panorama assolutamente sciagurato, bisognerebbe cominciare a pensare che ciò che facciamo in termini di “cura di noi” non è lontano dalla politica, non è una risoluzione intimista, non opera a livello individualistico, ma a livello “soggettivo e collettivo”.

Quello che facciamo per cambiare noi stesse e le nostre circostanze è immediatamente politico, perché per costruire un mondo, una società, una possibilità differente di vita e un modo diversi di stare insieme, abbiamo bisogno di una serie di pratiche differenti, non possiamo continuare a essere intossicati dalla società in cui siamo e immaginare di poter pienamente lottare contro quella società in uno stato di intossicazione. L’altra cosa che vi volevo dire, che solo apparentemente c’entra poco, è una breve riflessione sull’elemento che a me angoscia di più in questo momento, proprio in questi giorni: la streghizzazione della dissidenza.

Oggi chiunque si azzardi a dire alcunché contro le politiche sanitarie del Governo viene non soltanto zittito, ma proprio coperto di una sorta di pubblico ludibrio, per cui se ti azzardi a dire qualsiasi cosa, o sei matto o sei fascista... A me è capitato direttamente in università: per aver osato dire a tutti i colleghi «Guardate che esistono anche delle petizioni contro il green pass», sono stata talmente insultata, che a un certo punto è dovuto intervenire il rettore a dire: «richiamo i colleghi a un minimo di bon ton»... una cosa mai vista! Stiamo subendo un processo di streghizzazione analogo a quello che era in opera fino a qualche anno fa sui presunti pedofili (dico “presunti” perché è stato anche quello un processo di streghizzazione): per un po’ il modo più rapido per diffamare un avversario era quello di lanciargli un’accusa di pedofilia. Sono strategie di lotta politica tramite la diffamazione dell’avversario. Oggi il modo di diffamare l’avversario è quello di dirgli: «sei no vax».

Questa infamia corrisponde all’antica accusa di essere una strega.

Come prima cosa, è interessante rilevare come, a livello di mentalità popolare, si pensi che i processi alle streghe e i roghi delle streghe fossero nel Medioevo; in realtà i roghi e i processi alle streghe cominciano alla fine del Quattrocento e finiscono alla fine del Settecento. Quindi le streghe bruciano in pieno Illuminismo e questi due processi – quello della modernità e i roghi delle streghe – vanno osservati insieme.

Agli inizi della modernità, che significa agli inizi del capitalismo, l’accusa di stregoneria è servita per fare fuori, dal punto di vista simbolico o dal punto di vista materiale (o ti metto completamente ai margini oppure, molto banalmente, ti ammazzo), tutti quelli che avevano delle posizioni solide di resistenza. Nel Seicento s’impone come unica figura terapeutica valida il medico uscito dall’accademia: è il momento in cui lo Stato moderno e assolutista e l’università si saldano, in cui la figura del medico come unico terapeuta valido viene imposta non perché il medico sia bravo nella cura, ma perché è un “uomo di scienza”. E dunque, in quel momento storico chi disponeva di altre conoscenze (come ad esempio le levatrici nei paesi, che dicevano ai medici: «guardate che su come nascono i bambini noi ne sappiamo abbastanza, li abbiamo sempre fatti nascere») andava eliminato, sia sul piano simbolico che sul piano fisico, per ottenere che l’unico sapere terapeutico valido a cui ci si doveva a quel punto affidare (per forza: era rimasto l’unico!) fosse soltanto quello di Stato.

In questo processo, quindi, l’accusa di stregoneria serve a far fuori tutti gli avversari: non a caso, le streghe bruciate sui roghi erano le levatrici dei paesi, erano gli “stregoni” di paese, quindi le donne e gli uomini che, ad esempio, sapevano curare con le erbe.

Ma nello stesso periodo erano accusati di stregoneria, e bruciati, anche gli indios delle Americhe, perché le loro pratiche rituali e terapeutiche venivano lette con gli occhiali europei come “patti segreti con il demonio” (demonio del quale, per inciso, gli indios non avevano mai sentito parlare prima, perché tutta la configurazione della spiritualità fuori dall’Europa e fuori dal monoteismo è completamente differente). Allora: “strega”, per il potere, è chiunque si opponga con valide pratiche e valide ragioni alla presa del potere stesso.

Se “strega”, in senso tecnico, da noi non vuol dire niente (è semplicemente il peggior insulto che si può fare a qualcuno) è interessante vedere cosa succede quando la parola “strega” viene usata da due diversi punti della barriera sociale, dai dominati e dai dominanti. Vi faccio un contro-esempio di tipo antropologico, un rovesciamento che trovo molto significativo. Nell’Africa subsahariana esistono tutta una varietà di pratiche che noi europei chiamiamo, globalmente, “stregoneria”. Ma se chiedete a qualcuno: «Come è fatto uno stregone? Che cosa fa uno stregone? Chi è accusato di stregoneria?», la risposta suona più o meno così: «È stregone, o strega, chiunque prenda per sé i beni che sono a disposizione, che siano cose materiali o che sia potere, e poi non lo rimetta in circolo. Ed è stregone, o strega, chiunque catturi l’anima dell’avversario», dove “catturare l’anima dell’avversario”, nell’interpretazione di diverse zone dell’Africa subsahariana, significa ad esempio che voi fate una vita normale, poi vi mettete a letto e la mattina dopo vi svegliate più stanchi di prima. Dunque, tu pensi di andare a dormire e riposarti, ma in realtà, mentre stai dormendo, lo stregone chiama a sé la tua anima e la mette a lavorare nei suoi campi; tu credi di recuperare le forze dormendo ma in realtà stai lavorando e producendo per lo stregone. Ora, è notevole il fatto che la descrizione dello stregone in Africa – qualcuno che prende per sé e non fa ricircolare, qualcuno che cattura l’anima – corrisponda bene ai criteri di base del capitalismo. La produzione di plusvalore consiste, infatti, nel far produrre plusvalore al lavoratore e tenerselo, nel pagare il lavoratore meno di quello che il lavoratore stesso ha prodotto; e, nel frattempo, nel catturargli l’anima facendogli credere che quello che sta facendo è per il suo benessere, o addirittura per il progresso, per il benessere di tutti. È notevolissimo, allora, che dal punto di vista di chi sta nella posizione di dominio, la strega sia chiunque si oppone, mentre dal punto di vista del dominato la strega sia, molto precisamente, la figura del capitalista."

Stefania Consigliere


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