In questo caso, la cosa più intelligente da fare è proseguire con la pratica.
Prosegui, siediti, appoggia le spalle al muro o comunque siediti in modo comodo e rilassato, continua la tua preghiera interiore, chiedendo perdono per la scarsa qualità di ciò che stai facendo perché è proprio la meditazione che ti aiuterà a superare questa fase e a rendere perfetta la tua pratica. La meditazione è il sia il mezzo che il fine.
Prima ancora di iniziare un processo meditativo però è importante che appaia un elemento nello specchio della nostra coscienza: il pentimento.
Pentirsi è infatti il primo passo nel cammino spirituale. Il primo di cinque. Sul sito “Una Parola al Giorno” viene indicato come “Dolore, rimorso, rammarico per avere o non avere fatto qualcosa; cambio d’opinione, correzione.”
È una parola semplice. Il punto di partenza è un codice di condotta, un insieme di precetti morali, legali, religiosi: il pentimento è un tipo di dolore e rimorso che scaturisce dall'essersene discostati, facendo o non facendo qualcosa. Ma tale sentimento è piuttosto complesso: comprende il desiderio impossibile di essersi comportati in maniera differente, il riconoscimento dell'errore e un ravvedimento, e il desiderio possibile di una riparazione. Mostro il mio pentimento per non esserti stato vicino, il pentimento di non aver fatto qualcosa finché ero in tempo mi rode, il mio pentimento è motivo di azioni nuove e forti.
Il pentimento può essere un semplice disagio indefinito, un giudizio morale, una confessione, un’anticipazione di cambiamento o infine una vera e propria rinascita.
Ma se c’è pentimento significa che c’è una colpa, e quando esiste una colpa emerge anche un’imputazione. Giusto? Ma per cosa in realtà siamo colpevoli?
Giorgio Agamben, in Karman, un breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, disvela il filo che corre lungo i millenni alla ricerca di un nesso sostanziale tra azione e la sua conseguenza. Ma per ora mettiamo per un attimo da parte queste disquisizioni, anche se importanti per capire bene il nostro rapporto con la colpa e quindi con quel “fare concatenato” che viene chiamato Samsara.
In sanscrito pentimento viene indicato con la parola tapa, che non a caso è lo stesso termine che viene usato per austerità e calore (interiore). Questo perché...
non c’è niente che bruci il falso ego più del riconoscere che la nostra vita e l’immagine che abbiamo di noi stessi, siano il risultato di tutte le azioni sconnesse, impacciate e a volte maliziose che compiamo.
Il pentimento è quindi il primo passo, dicevo, ma non è fatto solo una volta per tutte: diventa ben presto un compagno nel sentiero. Infatti, man mano che si prosegue si aumenta anche la capacità di riconoscere le nostre mancanze, intravvederne le conseguenze e compiere i passi corretti per evitarle.
Solo gettando i nostri difetti nell’altare della realizzazione, potremmo far ascendere la nostra anima.
Sebbene andare a scovare le nostre fragilità sia difficile, tutti noi percepiamo anche solo confusamente, come la nostra identità egoica e frammentaria non ci permetta la vera connessione con il piano divino della vera felicità. Il pentimento perciò distrugge l’ego, permettendoci di sentire il flusso incessante di misericordia e ispirazione.
Sembra un discorso un po’ morboso in tempi in cui la nostra autostima è già così segnata. Ma pentimento non significa in nessun modo bassa autostima, e non ha mai questo obiettivo, anzi. Il pentimento, se condotto con le modalità appropriate, apre il nostro cuore e quindi la nostra consapevolezza a orizzonti molto più ampi e luminosi di quelli che solitamente indaghiamo.
Tra l’altro, spesso la bassa autostima deriva dalla percezione di una mancanza di ordine materiale, che sia sotto forma di ricchezza, bellezza, capacità, intelligenza, ecc.
Tapa invece segue la direzione opposta: ci si pente di aver desiderato quel genere di cose e quindi di essersi valutati secondo quel metro di giudizio, dimenticandoci totalmente della nostra natura divina, che è molto più potente di qualsiasi desiderio possiamo avere. Il pentimento quindi, che in questo caso si colora di una nostalgia struggente, rivela l'anima permettendoci di sentire dentro di noi un'autentica autostima, di essere amati, riconosciuti e protetti.
Questa nuova posizione ci permetterà di fare dei passi concreti nella nostra evoluzione e ci darà la forza e la motivazione per migliorare la nostra pratica.
La pratica meditativa viene paragonata allo zucchero dato come cura a chi è malato di itterizia, che fa percepire come amaro proprio lo zucchero. Man mano che la cura prosegue, la medicina sarà percepita sempre più come dolce, che è la sua vera natura.
Abbiamo quindi bisogno di proseguire nella pratica per coglierne davvero i frutti. Ora voglio darti 3 esercizi che potrebbero aiutarti ad andare in profondità delle tue motivazioni e quindi a rinnovare il tuo impegno nel percorso.
Spesso la nostra parte divina si affaccia alla nostra mente attraverso un ripensamento, un'impressione con cui cerchiamo di rendere trascendentale, o comunque utile al nostro avanzamento interiore, un pensiero. Questo è un processo molto utile ed efficace per partire da noi stessi e fare “un buon gioco con un cattivo affare”.
Potresti analizzare qualche desiderio che non ritieni utile alla tua felicità ma che comunque hai e commentarlo tra te e te per vedere se veramente ti è nocivo, oppure se puoi utilizzarlo per un fine più alto.
Ti consiglio inoltre una pratica molto potente e trasformatrice. Ritagliati delle piccole sessioni di scrittura, senza alcun soggetto preconcetto, e scrivi velocemente, abbastanza veloce da non ricordare quello che hai scritto e quindi essere tentato di rileggerlo. La prima frase verrà spontaneamente e ti accorgerai presto che la verità è così dirompente che ad ogni sezione che passa ci sarà una frase, sconosciuta alla tua coscienza, che sta gridando per essere ascoltata. Continua finché vuoi, affidandoti e meditando sulla natura inesauribile del fiume.
Non tutto ciò che uscirà sarà “spirituale”, ma con il tempo passerai dallo scrivere con la mente allo scrivere direttamente con il braccio, "l'inconscio". Il chiacchiericcio dentro di te, diventerà sempre più un vero e proprio Parlare con Dio. Se resterai in superficie, ti annoierai presto, ma se scenderai in profondità riceverai delle vere e proprie realizzazioni.
Se non riusciamo a ritrovare il gusto sperato nelle nostre sessioni di meditazioni, sia giusto chiedersi il motivo per individuare se esistono degli accorgimenti che potremmo prendere. Non farlo, lasciando irrisolta l’aridità di una pratica, la distrazione si affaccerà quasi subito e saremo sempre meno scrupolosi nella disciplina. L’interesse per la ricerca spirituale si affievolirà e cercheremo altrove la felicità, dando la responsabilità del nostro fallimento alla pratica. La colpa però è in boi stessi, che siamo diventati deboli nel cuore e abbiamo fatto in modo che il mondo ritornasse impetuoso nelle nostre menti. Un buon inizio per rinvigorire la nostra pratica è proprio quella di ammettere ciò che proviamo, ad esempio dicendo onestamente: “non sono interessato alla pratica meditativa perché credo che non possa soddisfare i miei desideri materiale che comunque ho.”
Questo approccio potrebbe essere diretto, ma rappresenta la verità, la nostra verità. Potrei infatti offrire ragioni più intricate e psicologiche e persino dare spiegazioni circostanziali, scuse e razionalizzazioni, ma credo sia più efficace raggiungere il punto fondamentale: l'accettazione della nostra riluttanza senza causa ad affidarci al Divino.
Ora saremo in una posizione migliore di quella di prima perché potremmo valutare con più attenzione i pericoli che stiamo incorrendo e quindi riaccendere il nostro fervore, tapa.
Se vuoi approfondire la pratica del mantra yoga ho preparato una miniguida per principianti. Nel frattempo, fammi sapere cosa pensi di questo articolo e in particolare in che modo ti può aiutare a migliorare la pratica meditativa.
Om tat sat,
Andrea (Ananda Kishor)