L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

LA VITE E IL VINO DEI GALLI ALLOBROGI, IL NEBBIOLO?

2022-03-17 15:04:16

Una storia ipotetica, ma possibile, aiutato da due grandi Luminari "Ampelografi"  

Il titolo può trarre in inganno qualche lettore piemontese, che potrà forse pensare si tratti delle viti aborigene dei nostri colli e dei vini che bevevano (e forse anche esportavano) i nostri antenati. Ché non di rado l'appellativo di «allobrogi» viene attribuito agli abitanti del Piemonte, soprattutto da quando il Parini, in una sua ode famosa, parlando dell'Alfieri, lo qualificò «fiero allobrogo». Per ricordare un motivo più recente, chi sale il colle di Superga per ammirarvi la superba cerchia delle Alpi, o la stupenda basilica Juvarriana, o le tombe reali dei Savoia, non può non sostare davanti al piccolo ma suggestivo monumento, eretto al principio del secolo in memoria di Re Umberto, nel quale lo scultore Tancredi Pozzi raffigurò un altro « fiero allobrogo »; questo fuso nel bronzo con la spada puntata quasi a difesa della Corona ferrea... Ma se lo scultore a buon diritto poté rievocare la figura d'un allobrogo, alludendo all'origine savoiarda della famiglia dei re d'Italia, non altrettanto può dirsi per il poeta lombardo. Ché l'Alfieri, benché la madre fosse oriunda savoiarda, era schiettamente piemontese, anzi astigiano... Quindi, non precisamente allobrogo. Ma la vite e il vino di cui qui s'intende parlare sono quelli che si producevano nell'evo antico nel territorio che ha per capitale l'attuale Vienne, piccola città sulla sinistra del Rodano a 28 Km. da Lione, che un tempo fu appunto la capitale degli Allobrogi, tanto da essere chiamata dai Romani Colonia Julia Vienna Allobrogum (e di quel tempo conserva fra gli altri, i resti d'un teatro e d'una cittadella). Il territorio degli antichi Allobrogi doveva avere per confini a settentrione il Lago Lemano (di Ginevra) e il Rodano, a occidente il Rodano fino alla regione di Tain, donde la frontiera s'estendeva in direzione Est fino alle Alpi: in sostanza, esso comprendeva quelli che furono poi la Savoia e il Delfinato. Delle viti, ma soprattutto del vino degli Allobrogi, parlano Columella, Plinio, Celso, Marziale. 

Il vitigno è chiamato da Plinio Vitis Allobrogica, o anche Vitis picata (da pece), poiché il vino assumeva spontaneamente un sapore di pece «quod naturae suae picem resipit » (dice Plinio). Donde il nome di Vinum picatum. Ma nel 1° sec. della nostra era nella regione di Vienne si producevano due categorie di vini; quelli il cui, gusto di pece (allora molto apprezzato!) era naturale, gli altri, ottenuti da vitigni non precisati, nei quali il sapore di pece era indotto ponendoli in botti di legno rivestite internamente di pece. Come si vede, fin d'allora, accanto a vini che potevano a buon diritto essere ritenuti tipici, ve n'erano di quelli d'imitazione... E fin d'allora i produttori di vini ottenuti dalle antiche viti Amineae provenienti dalla Magna Grecia cercavano di difendersi dall'invasione di quelli divenuti di moda: cioè ottenuti dalla Vitis allobrogica, (vinum picatum). Questa vite, secondo Plinio, era ancora ignota a Virgilio. Ma Columella diceva che, come le Eugeniae, le Allobrogiche, allontanandosi dalla loro terra d'origine, cambiavano i caratteri dei loro prodotti, dando vini senza pregi particolari. E anche Plinio scriveva: «Certi vitigni hanno un tal amore per la loro terra, che emigrando in altri luoghi, vi lasciano tutta la loro qualità e la loro gloria. È la sorte della Retica e dell 'Allobrogica». Tuttavia, quest'ultima poteva egualmente essere prescelta per la sua fecondità e resistenza ai climi freddi, tant'è che «la sua uva matura solo coi geli», e la vite preferiva anche i terreni freddi. Vite indigena, l'Allobrogica? 

È una delle questioni che si sono poste JACQUES ANDRÉ e Louis LEVADOUX in un loro dotto, interessantissimo studio su quest'argomento, apparso nel 2° semestre del 1964. L'André è un insigne filologo, attualmente Direttore di Studio alla Ecole des Hautes Etudes, appassionato studioso dei georgici antichi, traduttore di Plinio, ecc. Il Levadoux è ben noto come ampelografo e studioso di Viticoltura e dopo aver diretto per vari anni la Stazione di Ricerche Viticole della Gironda, ora dirige il Centro di ricerche agronomiche del Ministero d'Agricoltura della nuova Repubblica Algerina). Rispondendo indirettamente a quest'interrogativo, i nostri A.A. scrivono: «Che gli Allobrogi abbiano potuto scoprire un vitigno e svilupparne la coltura indipendentemente dal resto dalla Gallia non ha nulla di sorprendente. Le lambrusche, donde sono uscite le viti coltivate, hanno continuato a vivere in Francia, in Italia e in Spagna fino a quando la fillossera, l'oidio e la peronospora le hanno fatte sparire: se ne incontravano ancora alla fine del sec. XIX nelle foreste di quercia dell'Ardèche e nel 1877 nel Delfinato, nel Lionnese e in Borgogna, per non parlare delle regioni più vicine a quella di Vienne». Il Levadoux, che di queste lambrusche (intese nel senso che già davano i georgici latini a questo termine, e che, del resto, s'è mantenuto in varie regioni d'Italia: cioè viti nate spontaneamente da seme nei boschi e nelle siepi) ci ha già elargito pregevoli contributi (3) cerca di indagare quali dei vitigni che attualmente popolano il territorio degli antichi Allobrogi può riferirsi alla Vitis Allobrogica. Ed osserva che il Syrah (che produce oggi i migliori vini dell'Hermitage, della Còte Ròtie, e di Chàteauneuf-du-Pape) non può considerarsi tale, perché, a differenza di quanto afferma Plinio per l'Allobrogica, esso è uno dei vitigni che meglio conservano le loro prerogative enologiche anche sotto altri climi. Invece la Mondeuse, altro vitigno largamente coltivato oggi nel territorio che fu degli Allobrogi, e anche oltre i suoi confini, produce un'uva nera a maturazione tardiva; ma, allontanandosi dai suoi terreni d'origine, il vino assume un certo sapore terroso, cui bisogna abituarsi per accettarlo. -Non sono, forse, queste delle caratteristiche già indicate da Plinio per l'Allobrogica?..........

Giovanni Dalmasso - Università di Torino



Ma se il vitigno che i Galli Allobrogi coltivavano in quella fascia del Piemonte settentrionale increspata da dolci declivi, come diceva Plinio il Vecchio, in cui il clima alpino era molto particolare, fosse proprio il Nebbiolo.

Pochi vitigni sanno essere affascinanti, ma nello stesso tempo difficili, ostici e problematici come il Nebbiolo.

Alcuni giornalisti anglosassoni gli riservano l’appellativo di “fussy”, a indicarne l’indole schizzinosa ed esigente. Bene lo sa chi all’estero prova a cimentarsi con questo prezioso protagonista dell’enologia italiana: salvo rarissimi casi, che sarebbe ingeneroso non definire riusciti, il Nebbiolo si esprime in vigneto con un vigore disordinato e ribelle, con una produttività incostante, con uve di scarso equilibrio compositivo, incapace di dare vini che non siano brucianti per l’alcol, poveri di colore, duri e astringenti per i tannini.

Particolarmente sensibile alle pratiche d’allevamento, dunque, ma anche all’ambiente colturale.

Infatti, anche se è uno dei vitigni italiani più antichi (le prime citazioni risalgono a poco meno di otto secoli or sono), e fin dal passato tra i più rinomati, non pare essersi mai allontanato dal cuore del Piemonte e dall’arco alpino nord-occidentale.

Ma è proprio così? È proprio questo il luogo d’origine del Nebbiolo?

Da qualche anno abbiamo cercato di capirlo, basando le nostre ricerche sull’analisi di segmenti del DNA nucleico e paragonando il profilo genetico del Nebbiolo con quello di altre cultivar, provenienti dalla stessa area viticola o coltivate in vari luoghi d’Italia e d’Europa.

Ne è emerso un quadro intricato, e ancora in buona parte da decifrare, ma è certo che il Nebbiolo presenta legami di parentela assai stretti (cioè di primo o di secondo grado) con un numero rilevante di vitigni dell’Italia Nord-Occidentale.


Alcuni, come Freisa e Vespolina, sono varietà minori piemontesi di una certa importanza colturale: diffusa in tutta la regione la prima, presente nel Nord-Piemonte e sporadicamente nell’Oltrepò Pavese la seconda. Altre sono varietà poco o per nulla conosciute, perché oggi in via d’abbandono se non prossime a scomparire.

Un discendente del Nebbiolo è risultato, ad esempio, il Bubbierasco, un vecchio vitigno recuperato nel Saluzzese, in provincia di Cuneo, probabilmente originato da un incrocio spontaneo tra Nebbiolo e un’altra cultivar locale, il Bianchetto.

Ma sono ben altre 7 le varietà che, tra le mille e più analizzate, hanno altissima probabilità d’essere antenati o progenie del Nebbiolo, spesso a loro volta unite da legami di consanguineità di primo grado (genitore/figlio) o di secondo grado (fratelli).

Curioso è il fatto che 6 delle 7 varietà in questione sono vitigni propri della Valtellina, un tempo diffusamente coltivati e oggi anch’essi relegati al ruolo di comparse a favore della più pregiata “Ciuvinasca”, il nome locale del Nebbiolo.

È ipotizzabile allora pensare che il Nebbiolo, colturalmente legato all’ambiente alpino, sia veramente originario della Valtellina?


È ipotesi possibile, ma azzardata allo stato attuale delle conoscenze. Non sappiamo, ad esempio, se il Nebbiolo, in ciascun legame genetico, è genitore o progenie; non sappiamo quali sono i suoi presunti genitori, né il partner (o i partners) con cui il Nebbiolo ha generato le altre cultivar.

Un bel rompicapo, insomma, che sarà possibile chiarire solo a patto che gli elementi del puzzle (genitori e partners) non siano già scomparsi, inghiottiti dal continuo evolversi dell’assortimento varietale.

Del resto il Nebbiolo, con la sua spiccata variabilità intra-varietale, già ci aveva abituato alle stranezze. Le analisi genetiche hanno confermato, com’è noto, che il Nebbiolo Rosé non ne è una sottovarietà ma, a tutti gli effetti, una cultivar distinta, che si colloca proprio fra quelle strettamente imparentate con il Nebbiolo.

Da indagini recenti è emerso che essa non è limitata al solo areale albese, ma si ritrova anche in vecchi vigneti del Roero, in Valle d’Aosta e perfino in Valtellina, dove è chiamata Chiavennaschino e dove, per la sua rusticità, è presente sui ripidi terrazzi della Sassella affacciati sulla città di Sondrio.

Un vitigno che non fa che stupire, il Nebbiolo: con il suo carattere suscettibile, singolare e stravagante, chissà quante sorprese ancora ci riserva.

Da “Le sorprese del Nebbiolo” di Anna Schneider



I CELTI E LE BOTTI, SAPEVATE LE HANNO REINVENTATE IN PIEMONTE?

https://www.cam.tv/luomodellatavola/blog/la-storia-del-vino/CNT107416



                                       La via del vino tra etruschi e celti


Antonio.Dacomo 17/03/2022

1  
105