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Marcel Proust e il suo rituale della colazione

2021-02-09 16:04:46


Marcel Proust era una persona molto abitudinaria, legatissimo alla sua routine quotidiana che faceva molta fatica a cambiare.

Del resto come dimenticare l’incipit del primo volume della Recherche, Dalla parte di Swann, che esprime proprio quest’amore per le sue abitudini: «Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera.»

Ed è sempre nel primo volume che Proust evidenzia:

«L'abitudine! ordinatrice abile ma terribilmente lenta, che comincia con il lasciar soffrire il nostro spirito, per settimane, in una sistemazione provvisoria; ma che, nonostante tutto, esso è ben contento di incontrare, giacché senza l'abitudine, e ridotto ai suoi soli mezzi, sarebbe impotente a renderci abitabile una casa.»

E poco dopo sottolinea la conseguenza che ha su di lui il venir meno delle abitudini: «Venuta meno l'influenza anestetizzante dell'abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire cose infinitamente tristi.»

Una di queste abitudini viene raccontata, in modo abbastanza particolareggiata, da Brian Dillon in Vite di nove ipocondriaci eccellenti (Il Saggiatore, traduzione di Alessandra Castellazzi), riprendendo le memorie della cameriera personale di Proust:

«Céleste Albaret, ventidue anni, era impiegata da diversi mesi al servizio di Marcel Proust quando, nel dicembre 1913, le fu affidato per la prima volta il delicato compito di portargli il secondo croissant.»

Dillon si sofferma poi sul regime quotidiano che si traduceva in un vero e proprio «rituale da mettere in scena discretamente, per non disturbare il Monsieur addormentato, ogni pomeriggio»«Il regime quotidiano al numero 12 di Boulevard Haussmann era perlopiù preciso e immutabile, e le richieste di Proust al suo risveglio rimasero impresse nella mente della giovane paesana della Lozère, arrivata da poco a Parigi dopo essersi sposata.»

Vediamo allora in cosa consisteva questo rituale:

«Dopo aver passato la notte sprofondato nel suo romanzo e aver dormito, quando andava bene, poche ore, Proust finalmente riemergeva, a volte fiacco, verso le quattro. Secondo le sue precise istruzioni, bisognava preparare una piccola caffettiera d’argento, contenente caffè – a infusione lenta, molto forte, in un doppio bollitore – in quantità sufficiente per due tazze. (Il caffè, e i filtri, dovevano essere comprati sempre nello stesso negozio in Rue de Lévis, nel diciassettesimo arrondissement.) A volte, quando era particolarmente stanco o malato, non chiamava per la colazione fino alle sei. In quelle occasioni, il caffè doveva essere preparato di nuovo, per evitare che il palato delicato si rivoltasse contro l’infusione stantia. Nicolas Cottin, il valletto di Proust, era incaricato di appoggiare il caffè e un solo croissant sul comodino.»

Ma non basta: «In cucina era pronto un secondo croissant nel caso dovesse richiederlo più tardi, ma spesso rimaneva intatto. Di solito era la moglie di Cottin, Céline, a consegnare il secondo croissant.»

Il rituale della colazione sopravvive anche al venir meno delle persone: «Sul finire del 1913, tuttavia, Céline si ammalò e il marito stabilì che Céleste, la giovane sposa dell’autista di Proust, Odilon, assumesse questo compito secondario, sporadico ma essenziale, nel rituale quotidiano. Le spiegò che ci sarebbe stato un doppio squillo di campanello in cucina, se Proust avesse deciso di prolungare la sua colazione. A quel punto doveva affrettarsi a percorrere il lungo corridoio dalla cucina al salone, attraversare il salotto e poi entrare nella stanza da letto, senza bussare o dire una parola se non quando Proust parlava per primo.»

Dillon descrive uno dei momenti in cui Céleste consegna il secondo croissant a Proust: «Passarono diversi giorni prima che suonasse il campanello in cucina. Céleste aspettava, sempre più nervosa immaginando il padrone, silenzioso e invisibile, all’altro capo dell’appartamento. Infine, il segnale arrivò; afferrando il piattino, Celéste si fece strada fino alla stanza da letto, aprì la porta senza bussare e spinse d’un lato, come le aveva impartito Nicolas, la tenda pesante immediatamente dall’altra parte. […] la scena che accolse Céleste pareva quasi un’allucinazione.»

Ecco l’esperienza vissuta da Céleste:

«Céleste, tuttavia, non era pronta alla nebbia densa che riempiva la stanza oscurata, con le finestre chiuse e i tendaggi pesanti tirati contro l’imbrunire del pomeriggio invernale. Qualche scheggia di luce emergeva dall’oscurità: una lampada da comò con il paralume verde diffondeva un debole bagliore; il riflesso fosco della testiera d’ottone del letto e una piccola porzione delle lenzuola bianche erano avvolti nel suo alone, mentre appena oltre, sul comò, un vassoio d’argento e una caffettiera formavano un rivaleggiante gruppo di luce. Il resto della stanza era una fosca bruma: quando uscì, Céleste non riusciva a ricordare nulla dell’arredamento incombente, sproporzionato persino in quella stanza spaziosa, che in seguito sarebbe diventato così familiare. Era come se il letto e il suo occupante galleggiassero nello spazio, slegati dal resto della stanza, e dall’appartamento circostante, così come dalle strade esterne e dal frenetico mondo al di là.»

E Proust?

«Di Proust in persona, Céleste non riuscì a vedere quasi nulla, ma sentì l’intensità del suo sguardo su di lei. Tremando, si avviò verso il bagliore dell’argenteria e ripose il piattino, rivolgendo un inchino al volto semi-immaginato al capo del letto. Un braccio si alzò per ringraziarla, ma Proust non disse niente. Céleste si ritirò dietro lo spesso tendaggio e chiuse la porta.»