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Enzo Ceglie, architetto pugliese: vi racconto la mia partecipazione al progetto “Nudge: l’architettura delle scelte”

2020-06-25 13:17:59

Chi pensa che l’architettura sia una disciplina che studia e affronta il mero problema del rapporto dell’uomo con lo spazio che lo circonda, parte da un presupposto errato. Oggi le frontiere dell’architettura sono così vaste che è davvero un piacere esplorarle.

Il web, poi, offre la possibilità a chi si occupa di architettura di sconfinare in spazi e argomenti inediti, grazie alla creatività e all’immaginazione. E  proprio questi so    no gli “ingredienti” alla base del progetto intitolato “Nudge: l’architettura delle scelte” (a cura degli  architetti Massimiliano CafagnaMaria Alessandra Rutigliano). Si tratta di un  evento espositivo on-line dedicato al tema dei silos granari del porto di Barletta.


Tra i partecipanti a questo interessante progetto vi è un architetto pugliese, originario di Cerignola (Fg), Enzo Ceglie. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua personale e condivisibile idea di architettura, alla luce di queste nuove tendenze che la rendono sempre più una disciplina interattiva e calata nel quotidiano.

R: Come architetto e creativo hai partecipato al progetto “Nudge: l’architettura delle scelte” (a cura degli architetti Massimiliano Cafagna e Maria Alessandra Rutigliano). Guardando la tua opera e quella degli altri partecipanti ho colto una sorta di dimensione onirica dell’architettura. Un maggiore spazio all’immaginazione, secondo te, è auspicabile per ridisegnare spazi artistici e urbani?

EC: Intanto concedimi di ringraziare i curatori dell’evento, gli architetti Massimiliano Cafagna e Maria Alessandra Rutigliano, per avermi invitato ad offrire un contributo al dibattito e, prima ancora, per averlo animato. La dimensione complessiva che si coglie passando in rassegna gli elaborati della mostra è evidentemente una dimensione quasi completamente slegata dalla produzione ordinaria delle cose dell’architettura, essendo frutto, in molti casi, di un’attività parallela al mestiere di architetto, un’attività più ludica, riflessiva e di ricerca sperimentale, connessa ad un bisogno di ordine, diciamo così, più immateriale.


Di fronte ad un problema di natura progettuale, noi architetti, generalmente, ci poniamo la seguente domanda: “cosa è, cosa può diventare?”, attiviamo l’immaginazione e prendiamo ad indagare quella forma incompiuta e primordiale che è l’origine del processo creativo.


Talvolta, come in questo caso, esercitiamo questa creatività anche prescindendo dal mestiere quotidiano dell’architetto ed avvertiamo l’esigenza di affiancare altre forme parallele di sperimentazione, legate ad un bisogno personale, istintivo, quasi liberatorio, di ricerca solitaria, da non dover necessariamente sottoporre al vaglio di una committenza, come normalmente avviene facendo questo mestiere. Come in tanta poesia le parole non sono usate per descrivere, ma per creare visioni collegate con il ritmo del linguaggio, così gli elementi architettonici che compaiono in queste immagini non rimandano in prima istanza a funzioni specifiche. Essi si propongono nel loro valore intrinseco, capace di innestare reazioni emotive, e soprattutto quella curiosità che è la principale matrice dell’apprendimento e della creatività, senza legami di necessità con una specifica funzione da soddisfare. 


La finalità di questo tipo di produzione è probabilmente da ricercare nella focalizzazione di tutti quegli aspetti che, al di là della materia, innervano, rendendola comunicativa, l’opera architettonica, perché ritengo  che il saper vedere sia condizione preparatoria del saper fare e che, pertanto, nel nostro mestiere, affinché si possa essere in grado di incidere con idee di qualità, sia necessario un costante esercizio educativo dei sensi alla visione.


R: Sei un architetto che ha già esperienza alle spalle ma tanta curiosità ed intraprendenza: quali sono, secondo te, i limiti della professione oggi in Italia?

EC : I limiti io li intravedo nella burocrazia che attanaglia e, in molti casi, avvilisce il progetto di architettura, avvolgendolo in una morsa di norme e regole che ne accompagnano il processo evolutivo fino a privarlo quasi completamente della sua natura principale. Vitruvio sosteneva che il senso dell’architettura fosse la costruzione, invece, sfidandolo, Boullèe evidenziava come Vitruvio avesse torto, poiché in questa affermazione egli scambiava causa ed effetto; il fine dell’architettura non è la costruzione, l’architettura  è poesia, deve provocare delle risonanze poetiche, deve suscitare in noi dei sentimenti, delle sensazioni che dipendono dalle caratteristiche della sua anima. Non è solo forma delle “utilitas”, ma ha un compito che trascende da tutto questo, è una poesia che si rivolge a tutti, ha un carattere universale, comprensibile a tutti.


Cristiana Lenoci per lamia-puglia.com