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L'idea poco intelligente delle tante intelligenze
I coach fanatici dell’intelligenza emozionale pretendono di isolare alcuni comportamenti, spostandoli dal loro ambito naturale, per introdurli in un contesto tecnico e metodologico come la leadership, con il quale nulla hanno a che fare.
L’empatia ricade nel dominio della morale
È nella libera attività morale e nella sua manifestazione pratica che l’uomo realizza la propria natura sociale. Al centro ci sono dei valori, non una particolare tipologia d’intelligenza. A noi interessa un leader razionale, un soggetto capace di realizzare i progetti per i quali ha riunito attorno a sé una squadra. Ciò che vogliamo sviluppare sono le competenze per gestire le complessità della leadership, non indirizzare le scelte morali di un leader. I valori morali cui un leader si ispira vengono prima della sua leadership e sono il frutto del suo personalissimo percorso di vita. Non è difficile immaginare che una pessima persona sarà un pessimo leader, ma non esistono dei paradigmi etici per indirizzare il comportamento di un leader. E, comunque, non è un coach a poter stimolare la ricerca interiore della dimensione morale di un leader. In linea teorica, un leader carismatico non necessita di un corredo di valori morali per esprimere la sua leadership naturale. La leadership può esprimersi anche solo attraverso la naturale capacità di coinvolgere gli altri, attraverso le sottili tecniche della persuasione. Anzi, proprio l’empatia è uno degli strumenti più adatti a perpetrare questo tipo di subdolo condizionamento. Ecco perché il nostro leader deve innanzitutto essere logico e razionale, per essere tecnicamente preparato e neutrale rispetto alle proprie inclinazioni personali. Esercitare la propria intelligenza è l’unica strada per allargarne gli orizzonti ed estenderne le potenzialità, a tutto vantaggio (anche) dei propri valori morali. La nostra intelligenza non è una “cosa”, è un’attività, un processo. La nostra razionalità si manifesta attraverso le molteplici forme oggetto della nostra conoscenza. È la nostra capacità unificatrice che riconduce l’intera esperienza intellettuale ad essere identificata come “la nostra esperienza intellettuale”. Nessuno di noi direbbe mai di aver capito qualcosa con una delle sue intelligenze, tutti ci limiteremmo a dire di aver capito o non capito. La sfida consiste nel distinguere un’attività intelligente da un’altra, concependole come espressione di un’unica intelligenza.
Esiste una definizione intelligente d’intelligenza?
Eppure, il XX secolo ha avuto sviluppi inaspettati in tal senso. Ci sono state eminenti personalità che si sono prodotte in elenchi di tipologie d’intelligenza (analitica, linguistica, emozionale, ecc.), senza riuscire a mettersi d’accordo se considerarle autonomamente o correlarle in un’unica intelligenza. Nel 1904 Charles Spearman espone la sua teoria secondo la quale concede che ci siano diversi tipi d’intelligenza, precisando, però, che nello stesso soggetto sono tutte correlate. Nei test che aveva condotto, chi rispondeva correttamente ad una tipologia di test, rispondeva bene a tutte le altre tipologie e, viceversa, chi falliva in una tipologia di test falliva anche in tutti gli altri. Insomma, l’intelligenza era (ed è) una. Anzi, egli identifica un fattore comune e generale dell’intelligenza, che definisce fattore “g”, con qualche inquietante e inaspettata analogia involontaria. Nel 1983 Howard Gardner sostiene che le intelligenze siano otto e che non sono correlate tra di loro, ma lavorano indipendentemente. Pertanto, se qualcuno è dotato d’intelligenza emozionale (notare che se ne parla più di dieci anni prima del libro di Goleman), non vuol dire che abbia anche intelligenza analitica. Nel 1985, Robert Sternberg propone un modello a tre intelligenze: analitica, creativa e pratica, contestando, inoltre, l’idea che l’unica intelligenza misurabile sia quella testata secondo i criteri del QI. Insomma, sembrerebbe che la funzione intelligente dell’essere umano sia da attribuire a diversi meccanismi disgiunti, che operano separatamente e indipendentemente. Questo spiegherebbe perché qualcuno è in grado di capire qualcosa, ma qualcos'altro no. Semplicemente, ha sviluppato solo uno dei suoi “meccanismi” intelligenti. Confesso che questa impostazione mi pone non pochi dubbi. Per esempio: se le intelligenze sono molte, quale di queste stiamo usando per distinguere le altre? Perché appare evidente che almeno una delle intelligenze è più intelligente delle altre, nella misura in cui le classifica e le distingue. E poi, esiste una definizione intelligente d’intelligenza? A quale delle nostre tante intelligenze è affidato il compito di definirla?
Nessuna intelligenza emozionale, solo intelligenza.
Il tema rimane sempre lo stesso, la nostra attività intellettuale è caratterizzata dalla sintesi che compiamo a livello cosciente e non è sezionabile in base ai diversi oggetti di studio o d’interesse. Chi sostiene che esistono diverse intelligenze e porta argomenti a favore della sua tesi, sta mettendo in atto un processo logico che è pronto a difendere e a dimostrare per via razionale, ossia argomentando sulla base di dati, analisi e relative conclusioni. Stiamo dicendo che sarebbe costretto ad utilizzare la sola intelligenza che noi tutti conosciamo e riconosciamo. Non è moltiplicando il numero delle intelligenze che si colgono le infinite sfumature dell’attività superiore dell’essere umano, ma riconoscendo che l’attività morale e la razionalità sono i pilastri evolutivi della nostra specie, ed entrambe sono indissolubilmente intrecciate nell'auto percezione cosciente. Una caratteristica fondamentale dell’essere umano è quella di relazionarsi con la realtà fisica e con i suoi simili avendo sempre perfettamente presente due elementi fondamentali: se stesso e il resto del mondo. Ma in gioco non ci sono solo due elementi, bensì tre: il primo è la coscienza, ossia l’Io che percepisce, il secondo è il sé percepito e il terzo è composto dagli altri e dal resto della realtà. Ripensare criticamente i propri comportamenti, in funzione delle emozioni che li possono causare è, semplicemente, la funzione critica dell’io percipiente. Nessuna intelligenza emozionale, solo intelligenza. L’intelligenza è una, ma straordinariamente plastica e poliforme. È una perché uno è il soggetto che effettua la sintesi tra intellegibile e intelletto. Non solo con riferimento alla realtà esterna, ma anche con riferimento all'universo interiore. Gli istinti e le emozioni che ci attraversano innervano la nostra personalità, e la loro gestione cosciente e razionale ci aiuta a crescere come persone e a diventare sempre più intelligenti. L’intelligenza non è un dato statico, come quello di una macchina. Nell'essere umano è uno stato fluido, dinamico, mai definitivo. L’espediente di fissare per punti l’attività del nostro cervello è, appunto, un trucco della nostra intelligenza. Abbiamo bisogno di fissare il continuo dinamico della realtà per renderlo discontinuo e, quindi, comprensibile. Non esistono diverse intelligenze, ma diversi contesti nei quali e con i quali l’intelligenza si misura.