EMOZIONI SCOLPITE A PENNA

Poesia: tracce di vita impresse su carta

EMOZIONI SCOLPITE A PENNA

Poesia: tracce di vita impresse su carta

COULOIR

2021-04-18 19:44:16

Arrampico in equilibrio sulle mie paure.

Dopo aver mangiato una minestra liofilizzata calda, fuori della casa, vado a dormire in tenda con i miei tre compagni di avventura. Due di loro sono istruttori di alpinismo.

Nel parco del pelvoux è una notte splendida, piena di stelle che spuntano sopra gli alti pini illuminati dalla luna.

I ghiacciai, poco distanti, spingono a valle il loro alito freddo: un’ aria gelata ci rinfresca le idee.

Poco distante, nel largo fondovalle, il rifugio Pre de Madame Carle si staglia in mezzo al verde ed al grigio delle rocce. Pietra abitata inserita in un maestoso canalone glaciale, contornato da alte pareti verticali, che si allunga per venticinque chilometri fino a Briancon.

La sveglia suona implacabile a mezzanotte. Siamo già quasi vestiti e gli zaini sono pronti; mettiamo la tenda e le cose inutili nella macchina e dopo mezz'ora partiamo.

Siamo all’uscita finale del corso di alpinismo.
I miei compagni sono sicuramente molto più in forma di me: è solo la quarta arrampicata che faccio dall’inizio dell’anno ( d’altronde anche moglie e figlie hanno le loro esigenze ).

I due istruttori ci passano le corde ed imboccano di buon passo la morena del Glacier Noire, che parte appena dopo il rifugio e termina sulla sinistra della Barre Des Ecrins, circa 2000 metri più in basso.

Lasciamo il sentiero che porta al Glacier Blanche, molto più battuto, e ci inoltriamo nella notte e nel silenzio della montagna.

L’ambiente intorno a noi è meraviglioso; dopo mezzora di marcia cominciamo a vedere sotto la morena i primi crepacci, sulla sinistra la luna occhieggia tra le cime del Pelvoux, del Pic Sans Nom, che coi loro 3900 metri sembrano volerci inghiottire trascinandoci verso la loro ombra; davanti a noi sulla destra la valle è sbarrata dalla Barre Des Ecrins: da qui è un lungo salto verticale che porta fino a 4150 metri.

Nebbia e nuvole basse avvolgono a tratti il nostro percorso, la luna filtra debole emanando una luminosità tinta pastello che riflette sul bianco del ghiacciaio. Non abbiamo bisogno neanche di accendere la lampada frontale.

Finalmente lasciamo la morena, mettiamo i ramponi e cominciamo a risalire il Glacier Noire. Comincio a patire la mancanza di allenamento ma cerco di non pensarci, mi aspettano ancora molte ore di marcia.

Camminare di notte sulla neve, sulle Alpi, mi fa tornare in mente quell’inverno ad Aosta e quei ragazzi che cercavano di diventare uomini. Anche adesso, come allora, il mio rapporto con la fatica è un vincolo indissolubile che continua minuto dopo minuto. Sintonizzo tutti i miei pensieri sul ritmo del respiro e lo allineo con i passi; il sudore cade a fitte gocce sulla neve “scricchiolante”. E’ strano visto che ci saranno cinque gradi sotto zero, ma sono scherzi della montagna.
Verso le cinque arriviamo alla partenza della nostra scalata; anche io sono diventato bianco. Ho i capelli ricoperti di sudore che si è ghiacciato li.
Mollo lo zaino e  mi infilo, più in fretta che posso, la giacca vento giusto per evitare l’aria gelida dell’alba.
Finalmente lo vedo senza avere il fiatone.
La nostra meta è un colle posto alla cima di un ripido couloir che si snoda tra le pareti rocciose che discendono dal Pic Sans Nom

Alle prime luci dell’alba arrivammo all’inizio della nostra avventura; dopo quattro ore di marcia veloce l’incognito si ergeva dinanzi a noi.

Il couloir si contorceva in mezzo ad alte pareti rocciose innevate, sorretto da tre o quattro tiri di corda di ghiaccio quasi verticale.

L’aria gelida, che scende dai quattromila intorno a noi, mi penetra il pile, non mi da il tempo di godermi la pausa; non posso indossare l’attrezzatura da arrampicata ed i pantavento con calma: il sudore che si ghiaccia sulla pelle e tra i capelli trasmette l’urgenza delle cose da fare, forse anche la precarietà del nostro esistere.

Tolgo i guanti per fare più in fretta e, dopo aver preparato tutto, le mani scottano, rosse per il freddo. Non avevo mai pensato che il gelo bruciasse la carne come l’anima!

Le due cordate sono pronte: due sottili funi iper tecnologiche di nylon lungo cui scorre una reciproca fiducia o diffidenza, a seconda del momento e del bisogno.
Alle estremità due strani guerrieri, bardati di tessuti traspiranti ed antivento, scarponi, ramponi; armati di caschetto, chiodi da ghiaccio, piccozze, imbragatura, fettucce, moschettoni, discensore, uniti l’uno all’altro, nel bene e nel male, senza più possibilità di staccarsi: se uno dei due cade, l’altro deve tenerlo, o scivolare via a sua volta.

Il fiato è rotto dall’altitudine e dal peso che portiamo sulle spalle.

Il mio istruttore parte per primo, mi chiede se ho già fatto “piolet traction”. Devo rispondere, con molto imbarazzo, che so che è una tecnica di progressione su ghiaccio con due piccozze, ma che non l’ho mai usata... Lui non si lascia intimorire e mi spiega  che al massimo ci metteremo un po di più.

Aggredisco il nevaio che porta alla parete cercando di liberare la mente, in effetti non c’è più tempo per le mie paure, posso solo cercare di controllare la fatica.
Dopo poco l’istruttore sale, rapido, il primo tiro di ghiaccio e, da su, mi dice di andare: mi farà sicurezza. Per lui è certamente il momento in cui può capire di che stoffa è fatto il suo allievo, se potrà terminare l’opera.
Il mio cuore parte subito fuori giri: la mia piccozza prende bene nel ghiaccio, ma quella  che mi hanno prestato è corta e ci vuole molta fatica a piantarla, poi non la posso legare al polso e devo stare attento a non lasciarla cadere. Comunque sono decisamente poco allenato: peggio di quanto pensassi!

Alla fine del primo tiro comincia a girarmi la testa; per fortuna mi salva la pausa mentre assicuro il mio primo e posso affrontare il mio turno con meno fiatone: altro tiro di ghiaccio quasi verticale. La piccozza non si pianta subito bene, spesso e volentieri il ghiaccio si scheggia e si stacca: bisogna battere fino a quando la punta si blocca con un bel rumore rassicurante: tlac, secco, senza vedere schegge di “vetro” volare via.
Poi una bella prova di fiducia: quel centimetro circa, di ghiaccio, sosterrà il mio sforzo? Non posso perdere tempo, devo fidarmi, sono sicuro di aver fatto tutto per il meglio ed allora affido una cinquantina di chili e tutta la mia vita alla punta della picca, veloce, appena il corpo è in tiro e sollevato pianto l’altra e tiro su un piede dopo l’altro e via. Il ghiaccio sfasciato dai miei colpi feroci cade sul caschetto, scivolando verso il nulla con la consapevolezza della mia precarietà... La danza del mio equilibrio assorbe la mia mente, ed a parte la fatica sento di volare.
Anche questa volta posso assaporare i singoli istanti della mia azione, dei miei gesti: la concentrazione è tutta rivolta sul presente e sull’interazione ghiaccio metallo. Il fine è l’armonia dei movimenti, l’equilibrio della mente e del corpo.

Un’altro tiro, altri 50 metri di dislivello. Il ghiaccio instabile triplica la fatica...Finalmente sono sulla cima del primo pendio.

Da sotto si vedeva che due canalini ghiacciati, uno da 3500 metri di quota e l’altro da quasi 4000, confluivano a formare quella bastionata di ghiaccio verticale. Noi dobbiamo prendere quello di destra, ma i primi tiri sono comuni a tutti e due.
Adesso sono su un pendio meno ripido, il fondo è di neve dura e compatta, il passo può diventare regolare e procediamo in conserva: devo assolutamente prendere fiato prima della crepaccia terminale, ma non posso fermare i compagni: soffio come un mantice per alimentare i polmoni. Pausa: l’istruttore mette una vite da ghiaccio e poi, con fare attento, attraversa un ponte di neve che valica una grossa voragine buia. Uno alla volta passiamo sopra il vuoto: mezzo metro di gelo ci sostiene.
Costeggiamo da sopra quella grossa spaccatura, è una gola profonda ed il mio pensiero va a quanti scalatori, a quanti oggetti, riposano per sempre i quella tomba gelida. Ho un pò di paura e mi concentro sui passi per non pensare. Il mio amico dell’altra cordata vuole scattarmi una foto, ma non ho neanche più la forza di alzare la testa, e lamentarsi non servirebbe a niente: zitto e vai.

Procediamo in diagonale verso sinistra per portarci, finalmente, sulla verticale del colouir. Abbiamo lasciato la crepaccia terminale ma adesso è anche peggio: il pendio è sui 50 gradi di pendenza e se cedessero i ramponi scivolerei giu, dove, circa 200 metri più in basso attende una bastionata rocciosa da cui si vola in verticale fino al fondo, passando sull’altro colouir... se guardo in alto forse va meglio.
Si, di sopra è dura ma più entusiasmante: il canalino sta per entrare in mezzo a due enormi pareti a picco, sembra proprio siano state create da un colpo di sciabola come dice il nome sulle carte, Couloir du Coup de Sabre.

Ancora alcuni tiri, sempre più sulla linea di massima pendenza che ormai va sui 60 gradi, e sono sotto ad un passaggio molto stretto, dopo cui mancano solo più trecento metri al colle. La parte superiore e le rocce sono ormai esposte al sole e, le prime pietre smosse, tenute dal gelo della notte, cominciano a cadere. Io ed il mio amico dell’altra cordata siamo bloccati li: sentiamo gli istruttori faticare nella parte soleggiata del canalino.
Vicino a noi sentiamo passare i sassi, udiamo un sibilo sinistro e lo spostamento dell’aria, quasi fosse un proiettile. Ci defiliamo leggermente sulla destra, sotto un rialzo roccioso che ha la parvenza di poterci proteggere; io mi sento tranquillo, sono una cosa sola con la neve dove ho scavato due gradini per i piedi; so che il caschetto mi proteggerà da cio che cade, anzi, mi piacerebbe collaudarlo.
Continuo a verificare l’appoggio dei piedi e la tenuta delle picche per quasi un’ora prima che venga il segnale di salire; prima il mio amico.
Mentre aspetto il mio turno lascio anch'io un ricordo: un sopraguanto che scivola veloce verso la crepaccia terminale; non faccio il minimo tentativo di fermarlo.

Appena passata la strozzatura vedo sopra di me gli ultimi trecento metri, e capisco perchè gli istruttori faticavano e ci hanno fatto aspettare la sotto.
Pochi giorni prima era nevicato e la neve, accumulatasi sul ghiaccio vivo a 60 gradi di pendenza, con il primo sole si è smollata e non serve più a niente: è inutile per mettere una vite perchè non tiene ( bisogna scavare fino ad arrivare al ghiaccio vivo, prima ), è inutile per piantare i ramponi e la picozza. Dobbiamo trattenere il respiro, pensare solo ad arrivare nel tempo più breve possibile, mentre i sassi continuano a volare intorno a noi.
Io sto salendo per ultimo, metto i piedi nei buchi creati dagli altri; a volte la neve cede sotto il mio peso fno a che le punte dei ramponi incontrano il ghiaccio sottostante, per fortuna. Uso le picche come due bastoni afferrandole dalla becca, che è diventata inutile su questo “nevaio verticale”. E se la neve decidesse di scivolare sul ghiaccio vivo formando una slavina con noi come attori principali?
Il mondo è diventato verticale; i compagni non sono davanti a me ma sopra; nelle soste le punte dei loro ramponi quasi si appoggiano sul il mio caschetto.
Gli ultimi tiri li faccio veloci, la preoccupazione fa tornare le forze.

Finalmente siamo sul colle, 3550 metri circa

Il valore spirituale di aver compiuto un qualcosa di inutile e pericoloso, ma necessario alla mia completezza e coerenza di uomo che non tralascia ciò che ha iniziato, aleggia anche ora, in mezzo ai fiocchi di neve che cadono fitti.
Alla nostra sinistra il Pic Sans Nom si erge per altri 450 metri e la voglia è di salirlo, ma è molto tardi ed il ritorno, sull’altra valle, non appare agevole visto che dovremo scendere un’altro canalino, per fortuna con inclinazione di non più di 45 gradi e meno lungo.

Il ritorno sotto la neve, e poi la pioggia, mi ricorda l’esperienza di Aosta nel 1985. Adesso sono passati 16 anni, ma la voglia di stabilire i propri limiti, la necessità di non soggiacere al luogo comune è sempre più forte.

Arrivati alla macchina calcoleremo di aver marciato ed arrampicato per 21 ore consecutive... e ne sarà valsa la pena!

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