StiLè

2021-08-17 11:32:19

PROLOGO 0.2

Il mio futuro salone si trovava in una piazza di fronte alla porta del borgo rurale. In cima alla discesa il panorama mozzafiato spaziava dalle montagne al mare, e i tramonti erano fantastici: appena il sole calava sugli Appennini il cielo si colorava di arancio e rosso, e se andava bene ed era appena nuvoloso il viola prendeva il sopravvento sul bianco delle nuvole. A est il celo si scuriva lasciando intravedere le stelle: sembrava un presepe. A fianco dello stabile dove si trovava il salone c’era una grande chiesa che si ergeva maestosa sulla piazza, protetta ai lati da una fila di case che costeggiavano la strada.

Adamo, il parrucchiere che mi avrebbe ceduto il salone, fu felice di darmi il suo piccolo tempio della bellezza, e con esso anche le sue clienti più affezionate. Durante i primi sei mesi non avevo ancora ben conosciuto le varie vicende paesane, ero riuscita appena a inquadrare il carattere e il nome delle clienti più assidue. Nel mio breve periodo di inserimento lavorativo conobbi Luisa, una ragazza ambiziosa. Chiariamo che la più grande ambizione degli anni Settanta era di sposarsi e metter su famiglia! Era la ragazza del sabato mattina. Puntuale come un orologio. Era divertente, un po’ depressa perché non trovava marito, ma il suo pessimismo dava il “la” a discussioni con le altre clienti. I suoi lunghi capelli scuri erano bellissimi, amavo pettinarli e arrotolarli nei grandi bigodini argentati. Nei trenta minuti di asciugatura si chiacchierava delle nuove persone che arrivavano in paese a cercare fortuna (io ero stata una di loro).

Nelle piccole comunità tutti si conoscono; anzi, si sentono in parte genitori adottivi dei numerosi ragazzi che vedono crescere. Lì conobbi il mio futuro marito e padre dei miei figli: Giorgio. Era giunto al paese all’età di quattordici anni per cercare lavoro; faceva il calzolaio, pagava una stanza a dei benefattori che lo avevano accolto per qualche anno, prima che si sposasse con me. Era un bellissimo ragazzo: alto, moro, occhi d’un marrone tendente al miele. Tutte erano pazze di lui, ma non essendo un ragazzo facoltoso bensì solo un “semplice” operaio, ambivano a qualcosa di meglio. Una volta accaparrato il più bello del paese, tutte quelle che conoscevo mi dicevano che ero fortunata, ma non ce n’era bisogno: io lo sapevo bene.

Terminato l’inserimento lavorativo, venne completato il passaggio di proprietà. Io e Giorgio decidemmo di prendere casa in affitto a pochi metri dal salone. Il lavoro procedeva bene con le clienti: più passava il tempo e più c’era confidenza. Due anni più tardi, decidemmo di sposarci e spostarci in una casa più grande proprio di fronte al negozio.

Ormai mi sentivo anche io parte di quella comunità, e non più una straniera!

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StiLè

2021-08-17 11:27:03

PROLOGO 0.1

Quante chiacchiere assorbono le mura bianche di un parrucchiere di paese?

Credetemi, tante!

Ogni persona che oltrepassa quella porta ha una vicenda da raccontare, e noi, come psicologi, stiamo lì ad ascoltare senza giudicare, ad annuire dando loro ragione, che magari non hanno nemmeno. È questo il nostro lavoro: non siamo solo consiglieri di immagine.

Tutto iniziò nel 1965, quando decisi di realizzare il mio sogno e aprire il mio primo salone di bellezza per signore.

Avevo appena concluso gli studi in un lontano paese della mia regione. A quei tempi non trovavi corsi a portata di mano, e se desideravi qualcosa dovevi lavorare per guadagnartela. Vengo da una famiglia di cinque figli, mia madre faceva qualsiasi tipo di lavoro pur di portare qualcosa da mangiare a casa. Preparava le crostate per i signori del paese, lavava la biancheria, andava a macellare gli animali, tutto per racimolare qualche spicciolo per tirar su i figli.

Il mio paese nativo, Monte Giberto, si trovava su una collina dell’entroterra marchigiano ed era circondato da prati, campi coltivati, vigneti e uliveti; ogni paese nelle vicinanze di qualche chilometro era arroccato sulle colline, e da punti strategici si poteva ammirare il panorama fino agli Appennini.

Mia madre camminava per i vicoli del paese, fra quelle piccole case costruite con mattoni di fiume, indistruttibili, e si dirigeva verso la campagna, che distava qualche chilometro, solo per guadagnare qualcosa raccogliendo il grano, e se quel giorno il raccolto era proficuo ne rubava un po’ da portare a casa per preparare il pane che sarebbe servito per tutta la settimana. Se l’avessero scoperta le avrebbero tagliato le mani!

Ero piccola quando la neve e il ghiaccio ruppero una finestra. Non avevamo i soldi per ripararla, così mia madre prese dei cartoni e cercò di sigillarla alla bell’e meglio. Che freddo quell’inverno!

In quegli anni nevicava molto e mio papà, sempre ubriaco, se la prendeva con il Padreterno perché non poteva uscire di casa da quanta neve c’era fuori.

La sua specializzazione era l’apertura della botte da vino, e stava tutto il giorno con il bicchiere in mano, le poche volte in cui era sobrio posava il bicchiere e picchiava mia madre e noi figli.

Quando morì, lei indossò il vestito buono con delle grandi rose rosse stampate.

«Ma dove vai con quel vestito, al funerale di babbo?» le dissi incredula.

«Sì, cocca di mamma, è tutta la vita che aspetto questo momento, non penserai che pianga per lui?»

«Non pretendo che tu pianga per lui, ma almeno non facciamo ridere la gente!» Speravo di farle cambiare idea.

«Mica c’erano loro sotto le sue mani, quando mi picchiava.»

Non potei darle torto: erano pesantissime le mani di babbo, quando era ubriaco e quando era sobrio. Lasciai perdere e ci dirigemmo alla chiesa.

La cerimonia funebre fu per noi più comica che triste, con mia madre al capezzale della cassa che piangeva disperata.

«Adesso perché piangi? Dieci minuti fa eri contenta» le dissi sottovoce.

Lei mi rispose: «Lo faccio per la gente, altrimenti chissà cosa penserebbe di me.»

Esterrefatta, tacqui e mi rimisi al mio posto.

L’aveva odiato così tanto da farmi giurare, in punto di morte, che non li avrei seppelliti vicini: infatti lei è all’inizio del cimitero, lui all’estremità opposta.

Bastava poco per renderla felice!

A diciotto anni decisi di trasferirmi a trenta chilometri dal mio paese nativo per realizzare il mio sogno: aprire un parrucchiere per signora.

Era uno dei primi negozi aperti in quel paese, il salone che poi avrei rilevato. Il lavoro iniziava ad aumentare, i piccoli laboratori di scarpe sarebbero diventati da lì a poco grandi industrie. Era un paese che dava lavoro a ogni singola famiglia della comunità.

Il mio futuro salone si trovava in una piazza di fronte alla porta del borgo rurale. In cima alla discesa il panorama mozzafiato spaziava dalle montagne al mare, e i tramonti erano fantastici: appena il sole calava sugli Appennini il cielo si colorava di arancio e rosso, e se andava bene ed era appena nuvoloso il viola prendeva il sopravvento sul bianco delle nuvole. A est il celo si scuriva lasciando intravedere le stelle: sembrava un presepe. A fianco dello stabile dove si trovava il salone c’era una grande chiesa che si ergeva maestosa sulla piazza, protetta ai lati da una fila di case ch

StiLè

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