Daniele Ventola

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#day470 Aktau, quando #Schevchenko non giocava nel Milan

2019-11-17 21:49:08

Un freddo che avanza, attacca dietro la nuca, sale sulle spalle e irrigidisce i peli, nonostante un sole che acceca e fa desiderare di avere gli occhi a mandorla. In questo viaggio e' la prima volta che mi rendo effettivamente conto di aver attraversato il continente.

#day470 Aktau

quando #Schevchenko non giocava nel Milan


Un freddo che avanza, attacca dietro la nuca, sale sulle spalle e irrigidisce i peli, nonostante un sole che acceca e fa desiderare di avere gli occhi a mandorla. In questo viaggio e' la prima volta che mi rendo effettivamente conto di aver attraversato il continente. Eppure per quanto Aktau non sia il centro del mondo, come dice il mio amico Adrien, e' un centro di mondi.


I lineamenti asiatici, possono avere gli occhi chiari; i chiari occhi a mandorla si salutano con 'sdrasti' (russo), ma pregano 'namas' (musulmano). E' affascinante.

Ma e' anche facile vedere le strade di Aktau percorse da lineamenti russo-ucraini, perche' nelle fondamenta rimane una citta' unica nel suo genere. Dopo averne studiato la storia non riesco piu' a calpestare il suo suolo come il primo passo.

La citta' esiste da appena 61 anni cambiando piu' volte nome nel tempo, ma partiamo dal principio.


In principio era deserto e poche tribu' sciite i quali monaci sufi usavano costruire moschee nel cuore di montagne. Durante la meta' del '800 questo deserto era usato per mandare in esilio da parte dello Zar le brillanti menti come il poeta ucraino

Taras Shevchenko


Dopo la morte dei suoi genitori ad appena 11 anni, #Schevchenko pose la sua vita al servizio dell'arte.

Poeta, scrittore, pittore entrato nelle inimicizie dello Zar di Russia, il quale non poteva dargli punizione peggiore: sette lunghi anni nel deserto dell'attuale Aktau durante i quali gli era proibito impugnare le sue armi di inchiostro e follia. Fissava gli orizzonti di mare e di sabbia estendersi avanti al suo sguardo a tratti distratti dal passaggio di lupi e cammelli, mentre pensava:


"un deserto senza alcuna vegetazione, solo sabbie e pietre. Se vi guardate intorno vi sentirete talmente tediti che potrete anche imppicarvi, se ci fosse almeno un albero!".


Aktau era puro deserto fino a quando nel 1958. Vennero scoperti dei giacimenti di uranio, diventando pertanto una 'città chiusa' chiamata Guryev-20. Le città chiuse sono luoghi sottoposti a particolari restizioni: pochi vi possono entrare, pochi ne hanno residenza, pochi le conoscono.


Quando nel 1963 acquisi' lo status di 'città' il suo primo nome fu Shevchenko, che ormai nessuno qui potra' mai dimenticare.


Per rimediare alla mancanza di acqua potabile, la teconologia sovietica costrui' una centrale nucleare. L'acqua evapora ogni giorno consumando decine di metri cubi di acqua salata del Caspio. Attraversando il reattore nucleare viene trasformata in acqua potabile e industriale e solo un terzo di questa lavorazione e' impiegato per l'energia elettrica.


Dal nulla del deserto nasce questa citta' che solo con la dissoluzione dell'Unione Sovietica diventa Aktau. Le braccia di kazaki e ucraini hanno scavato con martelli il terreno per impiantare quei bulbi che insieme al terrreno hanno viaggiano per migliaia di chilometri. Ogni giorno venivano innaffiati affinche' le radici attecchissero ed e' stato un lavoro immenso al di la' di lingua, etnia e religione. Lavoro per cui nel 1967 venne costruita una capsula del tempo per ricordare alle generazioni future del 2017 i nomi di tutti coloro i quali sforzi hanno innalzato questa citta' nel nulla.

Era novembre del 2017 quando da tutto il #Kazakistan molti hanno percorso le lunghe distanze per partecipare all'apertura della caspula la quale, purtroppo, e' stata perduta a causa dei lavori. E in essa e' stato perso anche quel messaggio di speranza per il futuro che conservava.


O forse no? Forse quel messaggio di speranza batte ancora nel cuore dei Kazaki!

Visitando la moschea un uomo avvicinandosi invita me e Adrien ad assistere ad una cerimonia celebrata da una sessantina di persone. Alzandosi e sedendosi alle parole e ai canti dell'Imam rimangono estasiati da questo senso di religiosa comunita' e, quando ad uno ad uno andavano via, ci invinvitao in una stanza della moschea per partecipare alla cerimonia del the. In un Ampio salone il chiacchiericcio dei presenti evoca un aria di festa nella sala, silenziato solo dai canti dell'imam. Il piccolo Daniyar seduto di fronte a me parla inglese. Mi spiega che non si tratta di una celebrazione particolare, ma solo una rionione di comunita'.


La tavola imbandita del plof uzbeko, spaghetti cinesi, e dolci di ogni genere che tutti mi invitano a mangiare.


E dunque cosa sono le distanze? Cosa sono i muri? Chi sono io, chi loro? E come fare a sentirsi straniero in quest'aria di festa? Sara' stato questo il messaggio nascosto in quella capsula del tempo?


Tempi, spazi, lingue, distanze... granelli di sabbia di un'invisibile clessidra.

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