Amicus Plato, magis amica Veritas.
Quale natura giuridica delle criptovalute?
Le criptovalute sono un prodotto dell’attuale era digitale e, come sappiamo, trovano nel capostipite bitcoin il loro parametro di riferimento. Per comprenderne la natura giuridica ci viene in soccorso per ora solo la giurisprudenza.
Di fatto le criptovalute vengono oggi usate non tanto per lo scopo pensato dal loro creatore Satoshi Nakamoto, vale adire per essere un mezzo – alternativo alla valuta fiat – di pagamento per l’acquisto di beni, ma per la finalità di investimento. Ex facto oritur ius, dicevano i latini, e infatti la giurisprudenza, che spesso precede l’intervento del legislatore (nel nostro caso non ancora avvenuto per una compiuta regolamentazione delle “valute virtuali”) ha subito recepito questa situazione di fatto creatasi considerando, come nella recente sentenza n.44378 del 22 novembre 2022 della Corte di Cassazione Penale, le criptovalute come uno “strumento di investimento”.
Devo qui richiamare quanto da me più volte detto a proposito degli Unbestimmte Rechtbegriffe, i concetti giuridici imprecisi come definiti dalla dottrina tedesca: sebbene appaia evidente il concetto che la Corte intende esprimere, non vi è una definizione normativa di “strumento di investimento”.
Nella motivazione della sentenza la Suprema Corte precisa che sono oggetto di regolamentazione gli “strumenti finanziari” e i “prodotti finanziari”, così come definiti all’articolo 1 “Definizioni” del Testo Unico della Finanza (“TUF”). Ora, usare un termine, “strumento di investimento”, non utilizzato nelle norme di cui si invoca l’applicazione (artt.94 “Offerta al pubblico di titoli”e ss e art. 166 “Abusivismo” del TUF) non aiuta certamente a fare chiarezza.
Prima di spiegare le differenze tra i due termini nelle due norme richiamate, precisiamo che il caso portato all’attenzione della Cassazione non attiene alla qualificazione di bitcoin, bensì di un token, “LWF Coin”, che secondo il P.M. bresciano deve considerarsi, pur non dicendolo espressamente, un “security token“, vale a dire un prodotto finanziario, non un semplice “utility token“, cioè un titolo digitale che legittima il possessore ad ottenere beni e servizi.
La controversia sorta presso il Tribunale di Brescia e arrivata infine alla Corte di Cassazione si basa su questi termini il cui significato è attualmente definito solo dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Possiamo già intuire la linea idi difesa che è stata opposta all’addebito del Pubblico Ministero: nel caso in esame i 30 bitcoin venivano utilizzati proprio per lo scopo pensato dal loro creatore Satoshi Nakamoto, ossia come mezzo di pagamento per l’acquisto di beni (nella fattispecie gli LWF Coin) ma non come oggetto dell’investimento.
Al fine di esaminare il percorso logico che porta la Suprema Corte a qualificare gli LWF Coin come prodotti finanziari e a ravvisare, di conseguenza, la violazione della normativa sulla loro offerta al pubblico, occorre appunto distinguere e fare chiarezza sui due detti termini: gli “strumenti finanziari” e i “prodotti finanziari”.
I primi, per espressa definizione normativa (art. 1 comma 2 Testo Unico della Finanza) sono un numero chiuso nel quale non sono annoverati i token e le criptovalute.
I “prodotti finanziari”, di contro, hanno una definizione più ampia, ricomprendendo, oltre agli strumenti finanziari, ogni altra forma di investimento di natura finanziaria. Ma quanto i token e le criptovalute possono rientrare in tale categoria?
Nel momento in cui ricorrano i tre requisiti individuati dalla Consob e correttamente richiamati nella sentenza in esame:
- l’impiego di capitali;
- l’aspettativa di rendimento e
- il rischio direttamente collegato all’impiego di capitali.
In questa situazione i titoli offerti (nel caso specifico gli LWF Coin), possono considerarsi prodotti finanziari e quindi soggetti alla disciplina del TUF sull’offerta al pubblico.
Lodevole quindi lo sforzo della Suprema Corte nel cercare di fornire una maggiore tutela agli investitori, ma il principio espresso in sentenza non può essere esteso a tutte le criptovalute e a tutte le criptoattività (token, altcoin, NFT), essendo necessario valutare caso per caso la sussistenza dei tre requisiti sopra precisati, anche tramite la lettura del White Paper che descrive le caratteristiche dei token offerti.
Tra l’altro, la stessa suprema Corte, due anni fa, dichiarava che i bitcoin, non essendo di per sé prodotti finanziari, possono però diventarlo qualora vengano offerti per finalità di investimento e ricorrano i tre requisiti sopra richiamati (Cassazione n 26807 del 17 settembre 2020).
Non è dato sapere, essendo vaga in proposito la descrizione in fatto prima della motivazione, se con riguardo agli LWF Coin oggetto di giudizio ci fossero i predetti requisiti, che a quanto pare il GIP del Tribunale di Brescia non aveva ravvisato in concreto, rigettando la richiesta di sequestro preventivo e provocando così l’appello del P.M. fino ad arrivare alla Corte di cassazione.
Giova infine rilevare, per fare ulteriore chiarezza, che nella definizione di “servizi ed attività di investimento” di cui all’art. 1 comma 5 del TUF, richiamato dalla sentenza in esame, è espressamente previsto che oggetto di tali servizi ed attività possono essere solo strumenti finanziari e non prodotti finanziari.
Ne consegue che, se le criptovalute non sono strumenti finanziari, i servizi aventi ad oggetto le medesime non rientrano nella definizione di “attività di investimento” anche ai fini degli obblighi di cui all’art. 94 e ss. TUF.
Qualora poi rientrassero, come sopra precisato, nei prodotti finanziari per i tre requisiti in concreto in concreto ravvisabili – come viene accertato nel caso in esame e nelle precedenti richiamate sentenze – la relativa offerta è soggetta agli obblighi di prospetto – da sottoporre per approvazione alla Consob – ai sensi dell’art. 94 bis “Offerta al pubblico di prodotti finanziari diversi dai titoli e dalle quote o azioni di Oicr aperti” TUF.
Nel titolo di questo articolo appare l’acronimo OICR che significa “Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio”, tanto per fare ulteriore chiarezza laddove il legislatore presuppone che noi ragioniamo per sigle di cui sappiamo sempre il significato, ma così non è.
Non resta ora che assistere agli ulteriori sviluppi giurisprudenziali e magari anche legislativi in un settore sempre in divenire, anche per i nuovi termini dovuti alla continua e inarrestabile digitalizzazione di beni e servizi.
Milano, 3 gennaio 2023
Avv. Giovanni Bonomo