Storia & Antichità
Mara de Lucia si racconta nel libro "Una storia veneta"
Dall'intervista a Mara de Lucia, nel libro "Una storia veneta. L'avventura di Dino Boscarato e della trattoria dall'Amelia di Mestre", presto in vendita qui su questo canale in versione e-book. L'intervista è a cura di Ivo Prandin. Nella foto Mara de Lucia e Dino Boscarato con Carlo Rubbia, in occasione del Premio Amelia assegnatogli nel 1993
Una storia veneta
Mara De Lucia Boscarato, come è avvenuto l’incontro fra lei e Dino?
“Io abitavo in questa stessa strada, cioè in via Giustizia, che collega la Miranese alla stazione ferroviaria. I miei si erano trasferiti qui da Venezia, e la nostra casa era quasi vis-à-vis con la trattoria. Che strano, vero? Non siamo mai venuti qui a mangiare, né a pranzo né a cena anche se bastava attraversare la strada. I miei avevano abitudini rigidamente caserecce.
Però io ci entravo ogni giorno: venivo a prendere le sigarette per me e per la mamma. C’era una rivendita, allora, proprio dentro all’Amelia. Dino l’ho visto la prima volta lì, al banco, dove mi fermavo a chiacchierare con la ragazza dei tabacchi.
Ero anch’io una ragazza, avevo diciotto anni, ero libera, lui sentiva simpatia per me, lo capivo, ma da parte sua non è venuta nessuna avance, solo questo parlare insieme. E così siamo andati avanti in amicizia fino al 1966, quando ho cominciato a filare con un ragazzo. E allora Dino, che mi teneva d’occhio a distanza, ha capito che poteva perdermi e si è fatto avanti, un po’ impetuosamente devo dire.
Infatti, all’improvviso mi ha fermata e mi ha offerto un regalo, un portasigarette d’argento. Ma è stata una mossa che mi ha colto di sorpresa: la simpatia, da parte mia, non era ancora amore.
Lui ha agito d’istinto, così, senza preliminari, senza tanta diplomazia, ma era nel suo stile, al cento per cento. La storia finisce che ho lasciato il morosetto e ho detto sì a lui. Era febbraio, a giugno eravamo già sposati. Ventitre anni io, trentotto lui”.
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Com’era, qui, nel 1961? Mestre era in pieno boom edilizio.
“Direi che Mestre in quel periodo era ancora ferma prima del cavalcavia della Giustizia, e da questa parte c’era la campagna, con tanti campi nella zona fra il passaggio a livello e la stazione. È vero, però, la città stava crescendo in fretta, e ben presto avrebbe scavalcato il parco ferroviario. Non c’era ancora la tangenziale qui davanti. C’erano però piccole botteghe per le prime necessità: il forno, una latteria, il biavarol ecc. Insomma, qui era zona di periferia dove, però, c’erano ben due trattorie a distanza ravvicinata, addirittura dirimpettaie: l’Amelia e la Montagnola. Quest’ultima oggi è scomparsa”.
Così, da giovane sposa ma anche da padrona, lei è entrata subito nell’ingranaggio del ristorante, proiettata in un mondo totalmente nuovo per lei…
“Ingranaggio è la parola giusta, perché un grande ristorante è una vera machina, per dirla alla veneta, dove tutti lavorano in un settore e incrociano le competenze per l’unico risultato: una rete, come si dice adesso. Io non avevo competenze, ero la mascotte della famiglia, unica femmina in mezzo a quindici cugini. Sono partita da zero. Addirittura, come dicevo, non frequentavamo l’Amelia, luogo pubblico dove era facile essere esposti alle osservazioni, alle chiacchiere. Diceva mia madre che «la bocca del forno la chiudi, ma la bocca della gente non la chiudi». Capito?
Insomma, ho cominciato a vivere dentro l’Amelia con vari incarichi”.