Teresa Cecere

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Storie italiane: Storia delle Terre Aurunche: “il rito del maiale”, la tradizione ancestrale popolare.

2020-01-05 18:55:47

La tradizione dell’uccisione del maiale presuppone il contesto storico ed economico in cui esso avveniva, non è promuovere alcune delle modalità utilizzate.

Nei secoli passati ed in particolare nell’ultimo, il Territorio Aurunco, così come nella Ciociaria e in numerose altre zone d’Italia, dopo il Natale ci si riuniva in un momento di unità familiare e di organizzazione culinaria attesa da molti. Era il Rito del Maiale, programmato durante e dopo l’Epifania ma anche a ridosso delle festività carnascialesche.

Un sacrificio animale che nasceva da una esigenza di sostentamento annuale di una intera famiglia. Dopo averlo fatto crescere con cura, con cibi molto calorici e salutari (dalla crusca bagnata, granone alle ghiande) per raggiungere almeno il quintale di peso, il Porco, così chiamato in queste fasi, veniva ucciso in una giornata di festa collettiva, spesso esclusivamente familiare ma talvolta anche di rione.

Carano, Cellole, Lauro  e San Castrese tra le zone aurunche che ricordano meglio questo rito annuale, meno diffuso in Sessa città e nelle zone più urbanizzate.

Venivano contattati degli esperti del paese, uomini e anziani, che erano addetti ad “ammazzare” il Maiale; costoro erano organizzati con utensili e con grossi coltelli adatti alla raschiatura dell’animale delle setole ammorbidite con acqua bollente.  Gli orari prescelti erano solitamente quelli mattutini presso l’aia o anche in luoghi all’aperto della corte familiare.

Un fendente deciso alla gola dell’animale che era necessario per non compromettere il resto del corpo o degli organi. Un punto preciso  in cui l’addetto colpiva il  Maiale che era bloccato in tutti i suoi arti da altre persone e steso su un tavolo basso.

Una scena, ahinoi, violenta e triste, che però nella cultura di quei momenti storici acquisiva una ritualità gioiosa tra bambini che assistevano curiosi e tante donne che raccoglievano il sangue e collaboravano con dedizione.

Dopo una breve attesa, si praticavano dei tagli sulle zampe posteriori per infilare tra i tendini dei moschettoni di acciaio che permettevano di agganciare e appendere il maiale per iniziare la lavorazione. Si passava alla pulitura del corpo con intrugli di sale e “cetrangola” e una prima  raschiatura dei peli con un grosso coltello a cui seguiva una ulteriore passata di rifinitura con coltelli più piccoli e infine si sciacquava con acqua e asciugato con un canovaccio da cucina.

Gli esperti aprivano il maiale dall’inguine per poter permettere alle donne del gruppo di ripulire dagli intestini ed organi che venivano posizionati in piccoli e grossi bacili e secchi.

Da quel momento intervenivano ancora con più decisione le donne, le quali sciacquavano gli intestini con bastoncini di legno per girarli e che si utilizzeranno il giorno dopo per avvolgere gli insaccati.

Gli intestini venivano arrotolati il primo giorno per poi diventare imbottiti di carne spezzettata detta frigoli.

Il sangue raccolto veniva versato sul riso cotto con zucchero, uva passa e pinoli e amalgamato nelle “budella” nel famoso “sanguinaccio” infine bollito con del letto di alloro di contorno.

Infine, il maiale veniva appeso.

Il giorno dopo si effettuavano i tagli per conservare la varie parti: il prosciutto, la coppa, il filetto e la salsiccia.

La parte più grassa eliminata sin dall’inizio veniva accantonata: la sugna veniva sciolta e il lardo essiccato.

La sugna si trasformava in “Cicoli” e usata con pizza al forno.

Le ossa, orecchie e piedi del porco si bollivano per poi diventare minestre maritate con varie verdure.

Sempre il giorno dopo, il costato del maiale veniva diviso, divenendo tracchie e tracchiulelle.

Il fegato, polmone, cuore e reni venivano cucinati in pezzi trasformandosi nel noto “soffritto”.