Rosario Latronico

Cibi & Bevande

Martin Ford ha visto il futuro in cui smetteremo di lavorare.

2018-11-11 13:24:20

Martin Ford, futurologo e autore di bestseller della classifica del New York Times.

Martin Ford si è quasi sempre occupato di futuro: prima con l’iconica qualifica di “imprenditore della Silicon Valley” e poi – fino ad oggi – con l’altrettanto allettante titolo di futurologo: una professione per pochi, ma d’altronde presto le professioni saranno esclusivamente per pochi. Nel suo libro Il futuro senza lavoro (uscito in Italia per il Saggiatore, nella titolazione originale Rise of the Robots), Ford teorizza che la rivoluzione tecnologica di questi anni colpirà più duro di quanto siamo disposti (o pronti) ad ammettere. E, soprattutto, che i robot che ci “ruberanno il lavoro” sono un problema di tutti, a prescindere dal grado di istruzione e dal tipo di lavoro svolto.

Abbiamo incontrato Ford a Milano, dov’era per presentare una sua collaborazione con Lyxor e Société Générale – un Etf (Exchange traded fund) dedicato al mondo della robotica e dell’intelligenza artificiale che ha sviluppato con Daniel Fermon di SocGen, anch’egli presente all’incontro – e gli abbiamo chiesto cosa aspettarci da un mondo in cui buona parte della popolazione mondiale avrà perso il lavoro.

Nell’introduzione al suo libro Il futuro senza lavoro, dice che se non si ci adatteremo alla rivoluzione tecnologica potremmo trovarci alle prese con “la tempesta perfetta”, cioè l’intersezione tra tecnologia radicalmente innovativa, cambiamenti climatici e disuguaglianze in aumento. Quali sarebbero le conseguenze di un simile scenario?

Credo che potrebbero essere terribili, in ultima analisi potrebbe significare rivolte sociali, agitazioni anche nei Paesi sviluppati, e il caos totale negli Stati meno stabili. Due cose che tengo a ricordare: la tecnologia da sola sta già causando molta “disruption” e producendo molta disuguaglianza (negli Stati Uniti, ma anche nella maggior parte dei Paesi europei). Al momento negli Usa non abbiamo una disoccupazione alta, ma abbiamo salari stagnanti e disparità in crescita. Molte persone non ci pensano, ma il tasso di disoccupazione è basso perché abbiamo creato tanti lavori pagati poco o nulla – il commesso del fast food, il magazziniere di Amazon, questo tipo di cose – e non riusciremo a farlo per sempre: ho già a che fare con startup che lavorano a sistemi di automazione per i fast food, e Amazon stessa sta perfezionando i robot che gestiscono i suoi magazzini.

Penso che in futuro avremo meno lavoro propriamente detto, e che non dobbiamo dare per scontato che il cambiamento sarà innocuo. Ma l’idea che avanzavo nell’introduzione è che se tutto ciò diventerà un problema, e avremo persone senza lavoro, certamente queste persone non potranno occuparsi di nulla che vada al di là della loro sopravvivenza giornaliera. Il cambiamento climatico diventerà un problema che non interessa a nessuno, se percepito come in contrapposizione con gli interessi materiali. È ciò che succede nei Paesi in via di sviluppo.

E non soltanto. Pensiamo anche al cosiddetto Primo mondo, con la vittoria di Trump negli Stati Uniti, la Brexit…

Sì, assolutamente, penso che buona parte del trionfo di Trump sia una conseguenza della tecnologia. La maggior parte delle persone si concentra sul commercio globale e sull’immigrazione, perché sono sotto gli occhi di tutti – è semplice dare la colpa a qualcun altro, che si tratti di un lavoratore cinese o un immigrato messicano – mentre la tecnologia è più discreta, intangibile (ma diventerà più concreta con l’avvento di cose come le self-driving car).

Lei sostiene che i nostri presupposti riguardanti quali professioni saranno rese obsolete dalle macchine sono fondamentalmente sbagliati. Significa che la rivoluzione prossima ventura colpirà tanto le classi medio-alte quanto i ceti più bassi?

Il punto è che c’è questo preconcetto per cui, se pensiamo ai robot, ci vengono in mente macchine per le catene di montaggio e, quindi, lavoratori che non hanno titoli di studio “alti”. Eppure è del tutto vero che ci sarà un impatto enorme sui lavori da colletto bianco: in molti casi è più semplice automatizzare una professione white-collar rispetto a una da colletto blu, per la quale si necessiterebbe di macchinari costosi e ingombranti. Nei lavori più specializzati basta un software con l’algoritmo giusto. Molte professioni sono a rischio: nel settore bancario e finanziario, ad esempio, diverse persone hanno compiti ripetitivi, come compilare lo stesso report o fare la stessa analisi quantitativa. Qualche tempo fa il ceo di Deutsche Bank John Cryan ha detto che metà dei posti di lavoro della sua azienda avrebbe potuto essere sostituita da robot. Il cambiamento sarà generalizzato, e ciò in parte potrebbe essere positivo: i ceti coi salari più bassi spesso non hanno abbastanza potere politico per difendersi, ma se la trasformazione inizia a colpire più in alto nella scala sociale le cose cambiano.

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