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Storie di schemi: l’evoluzione della tattica.
Terza parte. Foto (1932) – Il Wunderteam austriaco di Hugo Meisl
Il “metodo” e il centromediano
Chiaramente ispirato alla piramide, il metodo venne anche chiamato “modulo a W”, perché la disposizione dei giocatori in campo disegnava due W poste l’una sull’altra. Come nella piramide, davanti al portiere prendevano posizione i due terzini, chiamati a presidiare la propria area di rigore senza specifiche funzioni di controllo nei confronti degli avversari. La linea mediana veniva però diversamente articolata: i due mediani laterali si allargavano sulle due opposte fasce di campo e finivano per controllare direttamente gli attaccanti esterni avversari, cioè le “ali”, mentre il mediano centrale, detto “centromediano”, diventava la figura dominante della squadra.
Lievemente arretrato rispetto ai due laterali, aveva il doppio compito di opporsi al centravanti avversario e di capovolgere il fronte del gioco con precisi e potenti rilanci che mettevano in moto la controffensiva. In genere, il suo rinvio veniva raccolto dalle mezzali, che impostavano la manovra sulle ali, i cui cross chiamavano in causa, per la conclusione a rete, il centravanti. Perno del metodo, il mediano centrale venne indicato anche come ‘centromediano metodista’, ruolo che assommava le funzioni svolte attualmente dal ‘libero’ difensivo e dal regista di centrocampo. In sintesi, il mediano centrale era l”uomo-squadra’.
Rispetto alla piramide, inoltre, gli attaccanti non erano più disposti tutti e cinque su una medesima linea: i due interni, o mezzeali, erano più arretrati rispetto alle ali e al centravanti. In tal modo, passando dal 2-3-5 della piramide a un più articolato 2-3-2-3, il metodo raggiunse il perfetto equilibrio numerico fra giocatori di difesa e di attacco. Questo schema tattico venne esaltato dalla scuola danubiana, la cui squadra più rappresentativa fu il Wunderteam austriaco, e raggiunse i risultati migliori con l’Italia di Vittorio Pozzo, che proprio grazie al metodo vinse due titoli mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938, inframmezzati dalla medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 1936. Deve essere però precisato che l’Italia diede del metodo classico un’interpretazione particolare, potenziando la fase difensiva e adottando l’efficacissima arma offensiva del contropiede, cioè invogliando la squadra avversaria all’attacco in massa, al fine di coglierla sguarnita mediante improvvisi contrattacchi.