Maria Domenica

L'ira d'Apollo

2019-11-11 19:30:42

Poesia di Alessandro Manzoni.

Vidi (credi, se il vuoi, volgo profano!)
Vidi, là dove inalzasi,
E nel Lario si specchia il Baradello,
Il Delfico calar Nume sovrano,
E su la torre aeria
Ristar de l’antichissimo castello:
Gli spirava dal volto ira divina,
E da la chioma odor d’ambrosia fina.

Sperai che, quale in su la rupe ascrea,
O sul giogo parnassio,
Dolce suono ei trarria da la sua cetra;
Ma il Nume che tutt’altro in testa avea,
Piegando il braccio eburneo,
Stese la man sul tergo a la faretra,
Con due dita ne tolse acuto strale,
L’arco tese: fremè l’arco mortale.

Ove su l’ampio verdeggiar dei prati,
Fra i balli delle Najadi,
Sorge l’alta Milan, la mira ei volse:
20Me comprese terror pei lari amati,

     E da le labbra tremule
La voce a stento ad implorar si sciolse:
«Ferma, che fai? deh! non ferir; perdona,
Santo figlio di Giove e di Latona!»

Al dardo impazïente il vol ritenne,
E a me rivolto in placido
Sembiante, a dir mi prese il Dio di Delo:
«Fino a noi da quei lidi il grido venne
D’uom che a sfidar non pavido
Tutti gli Dei, tutte le Dee del cielo:
E l’audacia di lui resta impunita?
Pera l’empia città che il lascia in vita.»

«Deh! per Leucotoe» io dissi «e per Giacinto,
Per la gentil Coronide,
Per quella Dafne sovra ogni altra amata,
De la cui spoglia verde il capo hai cinto,
Poni lo sdegno orribile,
Frena la furia de la destra irata:
Pensa, o signor di Delfo, almo Sminteo,
Che, se enorme è la colpa, un solo è il reo.

Un solo ha fatto ai Numi vostri insulto,
Spinto da l’atre Eumenidi;
Egli è il solo fra noi che non v’adora;
Non obliar per lui degli altri il culto:
Vedi l’are che fumano,
Vedi il popolo pio che a voi le infiora,
Ascolta i preghi, odi l’umìl saluto,
Che il Cordusio ti manda e il Bottonuto.

Tutto è pieno di voi. Qual rio cultore,
Non invocata Cerere,
I semi affida a l’immortal Tellure?
Ad ardua impresa chi rivolge il core,

     Se a la Cortina delfica
Il vel non tenta de le sorti oscure?
Quale è il nocchier che sciolga al vento i lini
Pria di far sacrificio ai Dei marini?

Voi, se Fortuna a noi concede il crine
O volge il calvo, amabile
E perenne argomento ai canti nostri.
Così le greche genti e le latine
Voi regnator cantavano
E degli olimpi e dei tartarei chiostri.
E, noi che in voi crediamo al par di loro,
Non sacreremo a voi le cetre d’oro?

Sommo Tonante, occhi-bendato Arciero,
De la donzella Sicula
Buon rapitor, che regno hai sovra l’ombre,
Tu che dal suolo uscir festi il destriero,
Giunon, Gradivo e Venere,
Tu che il virgineo crin d’ulivo adombre;
Io per me mi protesto, o Numi santi,
Umilissimo servo a tutti quanti.

Fa luogo, o biondo Nume, al mio riclamo;
Non render risponsabile,
Per un sol che peccò, tutto un paese:
Lascia tranquilli noi, che rei non siamo;
E le misure energiche
Sol contra l’empio schernitor sien prese.»
Tacqui, e m’accorsi al suo placato aspetto,
Che il biondo Dio gustava il mio progetto.

Lo stral ripose nel turcasso, e disse:
«Poichè quest’empio attentasi
Esercitar le nostre arti canore,
Queste orribili pene a lui sien fisse:

     Lunge dai gioghi aonii
Sempre dimori, e da le nove Suore;
Non abbia di castalia onda ristauro,
Nè mai gli tocchi il crin fronda di lauro.

Salir non possa il corridor che vola,
Non poggi mai per l’etera;
Rada il basso terren delvostro mondo;
Non spiri aura di Pindo in sua parola;
Tutto ei deggia da l’intimo
Suo petto trarre, e dal pensier profondo;
E sia costretto lasciar sempre in pace
L’ingorda Libitina e il Veglio edace.

E perché privo d’ogni gioja e senza
Speme si roda il perfido,
Lira eburna gli tolgo e plettro aurato.»
Un gel mi prese a la feral sentenza,
E sbigottito e pallido
Esclamai: «Santi Numi, egli è spacciato!
E come vuoi che senza queste cose
Ei se la cavi?» — «Come può,» rispose.

Tacque il Nume, e ristette somigliante
A la sua sacra immagine
Che per greco scalpel nel marmo spira;
Dove negli atti e nel divin sembiante
Vedi la calma riedere,
E sul labbro morir la turgid’ira;
Spunta il piacer de la vittoria in viso,
Mirando il corpo del Pitone anciso.

1