Maria Domenica

"Indulgenza nell'amicizia" di Alessandro Manzoni

2019-08-27 12:06:56

Traduzione dei “Sermoni”, I, 3, vv. 1-56 di Orazio.

Comune vizio de' cantori è questo,

Che di cantar pregati, infra gli amici,

Non vi s'inducon mai; non dimandati

Non fan più fine. Quel Tigellio Sardo

Fu tale. Augusto, che potea forzarlo,


Se il chiedea per l'amor del padre e il suo,

Nulla ottenea; se gli venia talento,

Da l'uova ai frutti ripetuto avria

“Evoè Bacco”, ora sul tono acuto,

Or sul più basso delle quattro corde.


Non mai tenne quest'uomo un egual modo.

Or correa per le vie siccome quello

Che fugge dal nemico, or come quello

Che di Giunone i sacri arredi porta.

Ora avea dieci servi, ora dugento:


Talor regi e tetrarchi, alte parole,

Risonava; talor: Non più che un desco

A tre piedi e di sal puro una conca

Ed una toga che m'escluda il freddo,

Sia pur succida, io vo'. Se dieci cento


Mila sesterzi avessi dati a questo

Frugal di poche voglie, in cinque giorni

Il borsello era vuoto; infino a l'alba

Vegliar soleva, e tutto il dì russava.

Nessun fu mai più da se stesso impari.


Ma qui dirammi alcuno: E tu? Non hai

Vizio nessuno? Ho i miei, più gravi forse.

Mentre un dì Menio cardeggiando stava

L'assente Novio: Ehi, l'interruppe un tale,

Non conosci te stesso? O a nova gente


Pensi dar ciance? A me fo grazia, ei disse.

Matta iniqua indulgenza e da biasmarsi:

Ne le magagne tue lippo e con gli occhi

Impiastricciati, perché mai sì acuto

Hai ne' difetti de gli amici il guardo,


Come l'aquila o il serpe d'Epidauro?

Indi è che i vizj tuoi spiano anch'essi.

È un po' stizzoso, e il naso fino offende

Di questi amici; rider fa quel tonso 

Capo e la toga in fogge un po' villane


Cascante e il pie' che nel calzar tentenna.

Ma è buono a segno che un miglior non trovi,

Ma amico ei t'è, ma una divina mente

Sta sotto il vel di quella spoglia irsuta.

Infine a te rivedi il pel, se forse


T'abbia innestato alcun vizio Natura,

O pur l'abito rio; ché ne gli incolti

Campi la felce sciagurata alligna.

Or vengo a ciò, che de l'amante al guardo

Sfugge il difetto de l'amata, o piace,


Siccome d'Agna il polipo a Balbino.

Così vorrei che in amistà si errasse,

E a tal error nome onorevol dato

Virtute avesse. Qual del figlio al padre,

Tal de l'amico il vizio, ov'ei pur n'abbia,


Non fastidir dobbiam. Strabone il padre

Chiama il guercio, e piccin chi il figlio ha nano,

Come già fu quel Sisifo abortivo.

Varo appella quest'altro che a sghimbescio

Volge le gambe, e quel balbetta Scauro,


Che mal s'appoggia sul tallon viziato

 È un po' gretto costui, frugal si dica:

È inetto e alquanto vantator, leggiadro

Vuol parere a gli amici: oh ma feroce,

Libero egli è più del dover, per dritto


E per forte si tenga. È un po' focoso,

S'ascriva ai forti. Questo modo, estimo,

Gli amici unisce, e li conserva uniti.

Ma le stesse virtù noi stravolgiamo,

E diamo la vernice a schietto vaso.

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