Marco Navarria

Founder Junior

Hanno ammazzato il giudice Falcone!

2019-05-23 06:59:32

Il 23 maggio del 1992 era un caldo sabato...

Io, allora sedicenne, avevo deciso di trascorrere il weekend con i miei a casa al mare.

Con gli amici di sempre ci eravamo dati appuntamento sulla spiaggia. Un telo del mare, un pallone di beach volley, il solito campetto sulla fine sabbia e tanta spensieratezza.
E' bello rivedere gli amici dopo un anno passato sui libri. Le solite battute sull'aspetto fisico, sulle ragazze, sulla squadra di calcio del cuore. Poi, ancora risate, il bagno nell'acqua ancora troppo fredda ed il ritorno a casa quando il sole stava già tramontando.
Pochi passi in cui la stanchezza del pomeriggio riscaldato dal primo sole quasi estivo cominciava a farsi sentire.


Dalle finestre aperte delle case la voce del telegiornale quasi all'unisono tra un'abitazione ed un'altra.
Ma non potevamo farci caso. Eravamo troppo presi dalle frivolezze della gioventù. E poi, quanto era diventata bella Marina... Se ne discuteva animatamente.


Quando rientrai a casa trovai mio padre e mia madre incollati davanti al televisore.
<<Hanno ammazzato il giudice Falcone!>> disse scuro in volto mio padre.
In tv scene degne del miglior film di guerra. Una voragine, due macchine, detriti, gente che cammina sconsolata attorno ai resti di quel massacro.

Nessuno in casa dice niente.
Si ascolta la voce grave del telecronista.


Falcone aveva lottato, così come aveva sempre fatto durante la sua carriera di magistrato, ma questa volta non ce l'aveva fatta: alle 19.05 di quel sabato la mafia aveva vinto.

Quel giorno ci sentimmo più soli.
Quel giorno sentimmo tutti di avere perso.

La mafia, quel brutto male che attanagliava la nostra splendida isola, aveva sferrato un colpo micidiale.


Seguivamo le vicende del magistrato Falcone, ne eravamo fieri. Cominciavamo a vedere la luce anche su scenari ipotizzati che lo stato aveva tenuto nascosti.

Quali grossi interessi erano stati toccati? Chi era il mandante? La mafia? Lo stato?

Tutto questo contava davvero poco in quella sera di quel lontano sabato di maggio.
Erano morti degli uomini, era morta la speranza.


Il giorno dei funerali, lo stato venne fischiato. La folla aveva dato un segnale forte: la Sicilia, quella onesta, rendeva omaggio ad un eroe.

Le parole di Rosaria Schifani, fecero il giro del mondo e rimasero impresse nella testa di tutti:


«Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani – Vito mio – battezzata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – lo Stato… – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio… di cambiare… loro non cambiano... loro non vogliono cambiare, loro...».
Rosaria Costa vedova Schifani

Quanto dolore in quelle parole.
Quanta amarezza nel pronunciare ironicamente la parola Stato!
Quanta commozione nel lungo applauso della gente perbene alla fine di quel discorso.

La nostra Sicilia, di lì a qualche mese, avrebbe provato un altro forte dolore con l'attentato a Borsellino.


Gli ultimi colpi di coda di una Mafia che stava per essere smantellata.

Oggi, abbiamo vinto tante piccole battaglie, ma la guerra è ancora lunga.
Possiamo vincere solo lottando contro il malaffare, camminando a testa alta!

Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.

Giovanni Falcone