L'UOMO DELLA TAVOLA

mangiare bene, bere meglio

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LA STORIA DELLE ETICHETTE

2021-04-20 13:26:00

GRAPPARTE, I PEZZI UNICI DI ROMANO LEVI - Il racconto sull'argomento che negli anni mi ha sempre appassionato, l'etichetta del vino.

Quante volte avevamo oltrepassato quel cancello per entrare in quell'aia, cortile simile a tanti qui in Langa, rustico e famiglare. Romano ti accoglieva con aria un po’ restia e distaccata, ma poi conoscendoti si ammorbidiva subito. Una persona che sembra sia vissuta fuori dal tempo, in un mondo tutto suo, fatto di ritmi lenti, strette di mano e dedizione al lavoro. 
Romano Levi è una persona che non si dimentica. Si è conquistato una notorietà diffusa in tutto il mondo con la sua semplicità e il suo carisma che per anni ha trasmesso attraverso le sue etichette “artistiche”.
Romano Levi, il “Grappaiolo Angelico” come lo soprannominò Luigi Veronelli sul settimanale Epoca, è stato un artigiano, un distillatore, un artista, un poeta, ma soprattutto, come lui amava definirsi, un “ignaro” 
 La sua priorità era quella di promuovere le visite alla distilleria per far conoscere la fatica, l’impegno, la passione che metteva in ogni sua bottiglia. ‘Quando si viene nella mia distilleria – ripeteva Romano – non è obbligatorio comprare una bottiglia, ma è obbligatorio assaggiare la grappa’, e quando qualcuno non degustava, come i bambini di numerose scolaresche che andavano a trovarlo, lui ne versava un po’ sul palmo della mano, per farne assaporare almeno la fragranza. 
Allora ti portava a visitare la sua distilleria, in fondo al cortile, spiegandoti le fasi della distillazione. Le vinacce ammassate sotto il portico, aspettavano la loro ora per entrare nella caldaia e contornavano l’ingresso dell’angusto “antro”. Ti faceva assaggiare le grappe, con un “ampolla vuota “tipo quelle della penicillina” legata a una funicella, la prelevava la grappa dalle botticelle immergendola. Per fortuna la grappa disinfetta tutto, pensavamo noi, infatti tutti bevevano da lì anche i visitatori prima di noi!!!
Era praticamente impossibile comprare più di due o tre bottiglie di grappa etichettate, anche perché le scriveva la momento, in quella “stanza delle ragnatele” e le attaccava di conseguenza alle bottiglie che ti vendeva.
L’ultima volta che sono andato a trovarlo ne ho avuto una, bellissima, personalizzata “per Antonio” che tengo come una “reliquia!.
Un ramo dell’antichissima famiglia di origine ebrea dei Levi, operava già dal XVII secolo nel campo, quasi alchemico, della distillazione nelle valli alpine di San Giacomo o Valle Spluga, localmente chiamata “Val di Giüst”, nei comuni di Fraciscio di Campodolcino.
Per oltre tre secoli, da queste valli i distillatori detti “grapat” emigravano temporaneamente durante la vendemmia e vinificazione, nelle zone vinicole del Piemonte dove con distillatori mobili, procedevano alla distillazione delle vinacce per la produzione della grappa.

Molti di questi distillatori, con il tempo, si trasferirono definitivamente sui luoghi di lavoro e impiantarono delle vere e stabili distillerie.
Tra Lombardia, Piemonte, val d’Aosta, Veneto ed Emilia, le distillerie fondate da gente della Val di Giüst arrivarono ad essere una cinquantina.
A Fraciscio di Campodolcino, esiste ancora la casa avita dei Levi, detta “casa degli Angeli” poiché tutti i capifamiglia che l’hanno abitata si chiamavano Angelo, come il nonno di Romano e Lidia. Forse non è del tutto casuale che Luigi Veronelli quando scoprì Romano lo definisse il “Grappaio l’angelico”.
Levi Serafino sposò Balbo Teresina e dal matrimonio nacquero due figli Lidia e Romano. Nel 1925 scelse di installarsi a Neive, terra di grandi vini e dove erano disponibili delle vinacce di altissima qualità, qui fondò la sua distilleria a fuoco diretto. Serafino morì giovane, nel 1933 lasciando i due figli piccoli e la moglie, che continuò a mandare avanti la distilleria. Ma anch’ella fu segnata da un tragico destino, la morte sotto un bombardamento nel 1945. Romano Levi aveva allora 17 anni ed era studente ad Alba.
 Così Romano si rimbocca le maniche e impara ad usare il “lambicco” per produrre il “grapat”. La vinaccia che arriva in distilleria viene conservata e conciata in profonde fosse e poi distillata con l’antico metodo del fuoco diretto. Terminato il processo di distillazione le vinacce esauste vengono torchiate ed essiccate per diventare, nell’anno successivo, il combustibile per la caldaia. Le ceneri di questa combustione vengono poi usate come concime nelle vigne, chiudendo così il naturale ciclo di produzione. Un certo giorno Romano, avendo finito le etichette, iniziò a scriverle manualmente, e poi a dipingerle.

Nacquero così la famosa “Donna Selvatica che scavalica le colline” e tantissime altre etichette ricercate dai collezionisti di tutto il mondo. Romano Levi muore nel 2008 e dopo qualche anno scompare anche la sorella Lidia con cui ha sempre avuto un forte legame. Oggi la distilleria, una vecchia cascina che sopravvive tra le case nuove di Neive, ha una nuova proprietà ed il lavoro all’alambicco è gestito in particolare da Fabrizio, uno dei collaboratori di Romano, i cosiddetti “Ignari”. Nel borgo vecchio di Neive si può visitare il museo dedicato a Levi e alla sua Donna Selvatica ed ogni anno, presso la distilleria, una grande festa annuncia l’accensione dell’alambicco. Luigi Veronelli definì Romano il “Grappaiol’Angelico”, di lui parlò il New York Times nel 1987 e tantissimi uomini d’arte e di politica hanno voluto conoscerlo. A chi gli domandava se si sentiva più poeta o più pittore Romano rispondeva “né l’uno né l’altro, io faccio grappa”. Nel 2011 l’Istituto Grappa Piemonte ha dedicato a Romano Levi un riconoscimento alla memoria.

La distilleria è sempre aperta a tutti, un po’ più difficile è trovare qualche bottiglia pronta per la vendita, poiché la ridottissima capacità produttiva non è in grado di soddisfare la domanda che arriva da ogni parte del mondo, ma i conoscitori lo sanno, si godono la serenità del luogo, non si arrabbiano aspettano o riprovano con pazienza.
La sua Distilleria era rimasta perfettamente identica a come la aveva progettata e costruita suo Padre nel 1925 : Romano Levi ha usato per tutta la vita il suo alambicco “Malba Giovanni”, un Tamburlano a fuoco diretto, uno degli apparecchi più difficili da utilizzare nel campo della distillazione e che può produrre grappa in quantità minime rispetto ai normali alambicchi industriali. Il risultato di questo tipo di lavorazione sono delle grappe rudi, ardenti, “selvatiche” come piaceva definirle il Maestro, qualcosa che solo chi le ha provate può cercare, se può, di descriverle.

Le Vinacce vengono raccolte freschissime, grondanti ancora mosto, e vengono sistemate in degli speciali Silos di Pietra scavati sotto terra fino ad una profondità di 7
metri (sembrano dei pozzi, perfetti per conservare  le vinacce fresche). La Caldaia viene caricata con 5 quintali di Vinacce e Acqua ed una “cotta” dura all’incirca 4 ore (si facevano 3 cotte al giorno). L’Alambicco viene alimentato a “Fiamma Diretta” (vuol dire che la caldaia in cui si mette l’acqua per far bollire le vinacce e catturarne il vapore alcolico è a contatto diretto con le fiamme, a loro volta alimentate da “mattoni” compressi di vinacce seccate, conservate dall’anno precedente dopo la distillazione). Il vapore passa nell’alambicco di rame e condensandosi attraverso le serpentine, si trasforma in gocce di grappa. Questa, attraverso un tubo e piccoli rubinetti, viene convogliata direttamente in quattro botti di legni diversi, dove resteranno per almeno un paio d’anni. Le botti di frassino e castagno lasciano la grappa bianca. Le botti di acacia e rovere, cedendo le loro sostanze naturali, la colorano di giallo.

Da non dimenticare l’inestimabile aiuto e lavoro della sorella Lidia, donna guardinga, silenziosa, dallo stile mariano, che ha preparato per tutta una vita le bottiglie con le erbe da lei personalmente raccolte e che hanno reso celebre l’umile distillatore ignaro.
E il suo spirito non verrà dimenticato perché “le sue donne selvatiche continueranno a correre sulle colline e non si fermeranno mai, finché ci sarà un alambicco che fuma lontano, in qualche orizzonte sperduto”, come scrisse Bruno Murialdo.
antonio.dacomo 20/4/21